L’universitaria camminò fino a rue des Écoles. Passando vicino alla cappella della Sorbonne, la fissò come aveva fatto lui il giorno in cui si erano incontrati. Per la prima volta vi soffermò lo sguardo e comprese che da quando si era iscritta all’università non l’aveva mai fatto. Guardò il cielo che iniziava a schiarire dietro la punta nera, come avrebbe fatto Malbec ispirandosi per un nuovo quadro. Poi abbassò la testa e imboccò Galerie des Sciences, dopo aver lasciato il cappotto rosso al guardiano Bernard.
Quello stesso giorno, lei posò la lettera ricevuta al Café Paradis sul tavolo della cucina, vuota, e salì in soffitta mentre gli occhi divenivano di un rosso più chiaro, arrancando sulle scalette di legno pericolanti. All’ultimo gradino avvertì l’odore intenso del solvente e dei colori ancora umidi, lo inalò come un medicinale e le pizzicò il naso. Si avvicinò alla finestra sporca dalla quale Malbec la salutava quando lei aveva il turno di notte in ospedale. Le piaceva il turno di notte perché con quel pretesto evitava di dormire da sola quando Malbec si addormentava davanti ai suoi cavalletti.
Di sotto, il poeta dormiva tranquillo come del resto stava facendo suo padre, profondamente legato a lui.
La ragazza tossì forte mentre apriva la porta della Salle Bourjac. Entrò e sospirò come prima di Philosophie de l’art. Si diresse nell’angolino di Malbec. Alzò un telo di plastica che copriva un lavoro finito da poco. Non erano rimasti molti dipinti dopo che i membri degli Artistes Associés avevano deciso di portarli a casa di Malbec, a Pacy-sur-Eure. L’avevano riempita prima che lui riuscisse a impedirglielo. In quell’angolo, appena illuminato, toccò la plastica sulla tela verticale, appoggiata a un treppiedi a X improvvisato con uno sgabello rovesciato.
Dietro di lei c’era il vecchio divano grigio sul quale si era seduta il giorno in cui Malbec l’aveva toccata con la punta di un dito. Quel giorno in cui vi si erano distesi abbracciati e svestiti. Ora sedeva su quello stesso divano, pieno di polvere e pezze seccate dai colori, mentre contemplava quel quadro.
Il vecchio Bernard la raggiunse per darle il cappotto, faceva freddo lì dentro. A lei però non importava, era immobile davanti al quadro di Malbec. Aveva ancora in mano un lembo del telo appena rimosso.
C’erano tante tele in giro per la soffitta, molte soltanto iniziate, altre piene di colori lucidi, appoggiate una dietro l’altra alle pareti più basse, dove il tetto scendeva in diagonale. Altre ancora, erano state appena spedite dalla clinica, il poeta le aspettava con impazienza. Un giorno vi avrebbe trovato l’ispirazione per le sue poesie. Lei non badava alle sue fantasticherie; le considerava sogni di bambino.
Anche la ragazza se lo chiedeva mentre continuava a fissare quel quadro. Malbec doveva averlo terminato prima di scrivere la lettera per lei, in quel giorno pieno di pioggia e vento. Dovevano incontrarsi al Café Paradis alle cinque e un quarto, ma non l’aveva più visto.
Lei fissava il quadro mentre accarezzava con la mano aperta il vecchio divano nel quale aveva affondato le dita. Poi si alzò, non sapeva esattamente cosa fare, si diresse verso il tavolo senza un piede sul quale c’era ancora la scatola con i tubi dei colori lasciati aperti. Le fece un effetto orribile toccarne uno, una sensazione di morte, tanto che lo rimise bruscamente dove lo aveva trovato e si strofinò nel palmo di una mano le dita imbrattate di verde e di nero. L’alluminio del tubetto era freddo, le causò un tremito lungo la gola che batté forte per qualche secondo mentre la voce produsse, senza che le venisse ordinato, una debole nota di terrore. Per terra c’erano decine di schizzi, come macchie o forme di colori sfuggiti ai dipinti; poco più avanti c’era un barattolo di vetro con un po’ d’acqua e alcuni pennelli lasciati a mollo a testa in giù. Lei li vedeva per la prima volta ma conosceva il suono che producevano quei pennelli quando venivano agitati all’interno del barattolo sul pavimento. Ogni volta che aveva sentito quel tintinnio, attraverso il solaio, si era chiesta da cosa fosse prodotto, e adesso lo aveva scoperto, come se suonassero ancora una volta contro il vetro colorato, tin, tin, tin.
In quella sala, una delle più importanti della Sorbonne, lei lo aveva guardato per ore, prima dell’Expo, mentre dipingeva la sua musa, avvolta da lenzuola bianche. Aveva studiato a lungo l’uso dei suoi colori, talmente sontuosi che le bastava guardarli per sentirsi appagata. Aveva amato il suo blu oltremare accostato al giallo paglia che vi s’innescava senza vergogna o il violetto e l’azzurro e il blu di Prussia che davano forma alle pieghe delle lenzuola, risaltando il pallore di quel volto addormentato.
Malbec dormiva e continuava a sognarla. A volte ripensava al Ritratto di donna tra le lenzuola bianche. E si chiedeva se anche lei lo stesse guardando.