Caroline Blackwood, “Non sono una sirena che mangia sulle ossa dei suoi amanti”

Quell’anno l’inverno sembrava più rigido del solito a New York. Non che a Caroline importasse granché. Quasi sempre a letto spossata osservava il panorama di vetro e acciaio che le arrivava dal finestrone del suo appartamento di Park Avenue e stupita si ritrovava a pensare alla sua giovinezza. Non lo aveva mai fatto prima. Ora però era diverso. Le restava poco tempo e lo sapeva molto bene. Quando la stanchezza dovuta alle cure non la obbligava all’immobilità, gironzolava per le grandi stanze di quella casa che le appariva sempre più come una prigione e posava lo sguardo sulle fotografie sparpagliate secondo un ordine apparente sui mobili che lei stessa aveva comprato grazie ai suoi libri. Immagini di figli e di amici. Di mariti. Di amanti. E ripensava ai ritratti per i quali Lucian le aveva chiesto di posare. Quadri che avevano fatto infuriare quel mondo altolocato e benpensante nel quale era nata e cresciuta. Ma nel quale non sarebbe morta. Sorrideva al pensiero che quelle tele ora figuravano in musei prestigiosi o venivano battute all’asta per cifre astronomiche. Quando una sua cara amica, la moglie del creatore di James Bond, le presentò Lucian durante un eccentrico vernissage, Caroline era appena ventenne. Suo padre era morto anni prima in India nel corso di un’azione militare a poche settimane dalla fine del secondo conflitto mondiale. A Caroline parevano secoli quelli trascorsi dall’arrivo di quella notizia e il ricordo del padre sbiadiva assai rapidamente. Era stato un uomo molto bello. E molto triste. Discendeva da una antica famiglia aristocratica anglo-irlandese e l’educazione severa ricevuta lo aveva reso immune dal manifestare emozioni. Se la guerra non lo avesse ammazzato lo avrebbe fatto di certo la depressione, rimuginava spesso Caroline. Dopotutto sua madre aveva perso il senno per le stesse ragioni facendo una brutta fine. E Caroline temeva di finire come sua nonna, la marchesa. Pazza. Caroline e Lucian furono immediatamente attratti l’uno dall’altra. Lei desiderava affrancarsi più di ogni altra cosa dall’imbalsamato ambiente familiare. Lui aveva quasi dieci anni più di lei, era un pittore in rapida ascesa convinto di essere destinato a una fama eterna. La famiglia di Caroline oppose un netto rifiuto a quel legame considerato inaccettabile. Fuggirono all’estero e furono accolti temporaneamente a Parigi da Picasso, un amico di Lucian. Quando nel 1953 si sposarono, Caroline voltò per sempre le spalle al mondo ovattato che le aveva dato i natali. E troppe sofferenze. Andò a vivere nella piccola casa londinese che Lucian utilizzava come studio e cominciò a frequentare la sagace e bizzarra combriccola di artisti che costituiva per lui quel rifugio familiare contro le intemperie che l’esistenza non si stancava mai di imporre ai suoi figli più fragili. Caroline era affascinata da quell’universo di locali frequentati da gente dall’apparenza poco raccomandabile e dagli amici fraterni di Lucian sempre con il bicchiere colmo in mano, sempre a ridacchiare per le storture assurde della vita, sempre a mettere l’arte al primo posto. Lucian la vedeva come la sua personale musa. Lei posava sdraiata su un divano malconcio buttato in un angolo di quell’angusta casa-studio. Tuttavia, Caroline non era felice. Celava una frattura profonda e l’aveva taciuta anche a se stessa. E anche a Lucian. Aveva già scritto in passato, nulla di rilevante. Semplici pezzi di occasione. Cronache di costume e niente più. Era arrivato il tempo di intervenire su quella frattura e di rivoltarla per comprenderla. E forse, sanarla. Solo la scrittura le avrebbe dato la libertà necessaria per affrontare quell’impresa. Caroline pretendeva di essere soltanto musa di se stessa. Certo, aveva posato per Lucian. Ma solo per irretire la sua famiglia. Che era, ora lo capiva, la sua frattura. Tra gli amici di Lucian, Caroline si affezionò presto a Francis, pittore già ammirato nei circoli dell’arte che contavano e da molti temuto per il suo piglio sarcastico. Un giorno sorseggiando del whisky nel caotico studio di Francis, Caroline si paralizzò dinanzi a uno degli ultimi lavori dell’amico: una figura umana ridotta allo stadio larvale che gridava senza requie, prigioniera di quello che all’apparenza si presentava come un comune salotto borghese. Di colpo Caroline vide con chiarezza cosa e come avrebbe scritto: quella impressa sulla tela era l’immagine senza infingimenti e orpelli della propria condizione e dell’intero genere umano. Nessuno ascoltava gli strepitii di quella creatura, nessuno riusciva a evadere da quella gabbia. Francis le aveva indicato la via. Quella immagine era anche lo specchio preciso della sua famiglia, la sua insanabile frattura. E di questa, Caroline avrebbe narrato la prigionia e le grida soffocate che non smettevano di rimbombarle negli orecchi dalla nascita.

L’anonima ragazzina al centro del racconto di Caroline viene obbligata a trascorrere due mesi con la bisnonna. La guerra è terminata da poco, il padre della protagonista è morto servendo la corona come si addice a un aristocratico del suo rango. Era giovane suo padre. Un bell’uomo silenzioso che poco amava la compagnia degli altri, compresi i suoi stessi figli. Racconta in prima persona la ragazzina, di come un banale problema di salute era sembrata la scusa ideale per sbarazzarsi di lei. Troppo nobili i suoi familiari per occuparsi del lutto di una figlia quattordicenne. L’anziana dama di compagnia della bisnonna fa gli onori di casa, una dimora fragile e ossuta quanto la sua proprietaria. E la ragazzina si ritrova in un’altra gabbia, asserragliata da nuove inflessibili regole che la privano del respiro. La bisnonna Webster non è una semplice matriarca. È la vegliarda sopravvissuta a tutti e a tutto, inabile alla compassione, ostile ai gesti di affetto e alle dolci parole, convinta che soltanto un decoro inamovibile possa ridurre i danni causati dall’unico concepibile destino umano che è quello di soffrire. E restando immobili e zitti, respirando il meno possibile, non si può essere toccati dalla sofferenza. Ma nemmeno dalla vita. E mentre le tetre giornate tra quelle camere che assomigliano a un museo delle cere trascorrono lente, la ragazzina inizia a capire le ombre che si erano impossessate troppo presto dello spirito di suo padre. Comincia anche a dubitare che la sua morte sia stata solo il frutto di uno scontro perso contro il nemico in guerra. Invece, non dubita affatto di quanto micidiale sia stata la concezione aberrante dell’esistenza della bisnonna Webster per chi in quella famiglia era arrivato dopo di lei. Ad esempio per la figlia di quella truce arpia, la nonna della ragazzina. Quella donna che la ragazzina aveva potuto vedere solo accompagnata da un adulto perché i demoni che l’agitavano da sempre avevano preso il controllo definitivo della sua labile mente. Quella donna che ormai da tempo assente da se stessa ignorava che il figlio che troppo l’aveva amata era morto in battaglia. Al termine dei due mesi, la ragazzina viene rispedita a casa. Come un pacco di lusso, da una residenza all’altra. L’attende il debutto in società. E al momento del saluto, le poche succinte parole della bisnonna Webster si riferiscono a quel debutto come alla sola speranza di trovare un pretendente di rango per chiudersi nella cella del decoro e preservarsi dal dolore che una vita di scelte libere comporta inevitabilmente. La ragazzina non la rivedrà mai più in vita. Mesi più tardi, in mezzo alle poche persone intervenute al funerale della bisnonna Webster, la ragazzina si aggrapperà con forza al ricordo del volto malinconico di suo padre, ben sapendo che entrambi si portavano appresso una identica frattura che aveva origini lontane.

Quando Great Nanny Webster fece la sua apparizione nelle librerie inglesi nel 1977 fu immediatamente chiaro a tutti che la ragazzina del romanzo era la stessa Caroline. Tuttavia, i riconoscimenti che quelle pagine ottennero non sistemarono il male che quella dannata frattura ancora le procurava. Lucian era un ricordo passato. Altri uomini c’erano stati dopo di lui. Nessuno di loro era riuscito a curare quella lesione. Tutti loro però, senza sforzarsi di capire l’origine di quella sua incrinatura dell’animo, una volta lasciati l’avevano liquidata come una sirena che mangia sulle ossa dei suoi amanti. Davanti alla fine era rimasta sola. E le andava bene così.
Caroline Blackwood morì a New York in una gelida alba di febbraio del 1996.

Alex Marcolla

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