Londra, la mia antica sposa e amante, vestita a festa, ma la festa è finita

Blu abbacinante e le stelle sbiadite in quest’alba d’autunno. Poche persone per strada. Rispettare vuol dire guardare di nuovo. La bellezza degli altri – pendolari all’uscita della stazione, fruttivendoli che scaricano il camion all’angolo; l’uomo barbuto che porta a spasso il cane all’angolo di Park Hill Road; la ciclista che anticipa il traffico a Fleet Road. Potrei disporre l’orologio alla regolarità di tali apparizioni. L’albero maestoso davanti alla casa dove abitò Mondrian sillaba lo scorrere del tempo, e nel flusso invisibile di tronchi e rami seminudi cerco i movimenti impercettibili del cuore. Il portone verdeggiante rifulge nella penombra. Lo spirito di Mondrian danza nel soggiorno.

Camminando sul selciato umido ammantato di foglie rosse, la mente vaga al film di ieri, Gli spigolatori e io del 2002. Agnes Varda torna due anni dopo a conversare con le persone incontrate nel suo primo film, un documentario che traccia l’arte di vivere d’avanzi. Gli spigolatori cercano cibo, oggetti di scarto, connessioni umane. Ci sono spigolatori di campagna e di città. La regista non s’era accorta che uno di questi fosse lo psicoanalista, enologo, e filosofo Jean Laplanche che nel primo film spiegava l’arte di utilizzare acini d’uva scartati e racimolati dopo la vendemmia. Nella sequela, Laplanche descrive la psicoanalisi stessa come spigolatura, un prestare attenzione a ciò che normalmente scartiamo: parole e gesti che rotolano via dal discorso o che vengono minimizzati e considerati irrilevanti. Parole fuori dalla conversazione abituale acquistano valore perché ciò che si scarta è più prezioso di ciò che si raccoglie. “Ha anche a che fare con la povertà?” chiede Varda. Sì, anche l’analista si trova in uno stato di povertà, risponde Laplanche. Non sa in anticipo cosa raccoglierà. “Ma non è al paziente che manca qualcosa?” chiede Varda incredula. Certo, risponde Laplanche, il paziente va dal medico e gli domanda “Dottò, cosa c’è di sbagliato in me?” Ma il medico ne sa quanto il paziente, ed è questa la cosa meravigliosa. Sono entrambi privi di conoscenza e in tal senso entrambi poveri. E anche se il medico crede si sapere, deve rinunciare a ciò che sa per aprirsi al nuovo.

Dev’essere mercoledì: il netturbino trascina un grosso bidone nero e lo spilungone in calzoni militari corre puntuale nel viale di alberi rossi. L’autunno segna una soglia. Alito sulle mie dita fredde. Due passanti si confessano al lume del cellulare, i volti icone irradiate. L’avviso vicino a una telecamera m’informa che ogni immagine è monitorata per la sicurezza pubblica. In quanti film silenziosi e tristi si appare ogni giorno. Non c’è bisogno del panottico di Bentham, la prigione circolare che avrebbe ottimizzato la sorveglianza. Ricordi involontari non monitorati di un vecchio amore, la sua stanza silenziosa in un’alba indiana svanita con la foschia che accarezza le pietre antiche. Blu pallido, nuvole lontane all’orizzonte; scorci di città tra gli edifici. Su quelle nuvole azzurre indugio ad ascoltare il racconto di un impossibile presente. Noi soli al mondo sappiamo come divenire assenti, essere qui e al tempo stesso altrove.

Aumenta il traffico  e nella rosticceria una donna pulisce il bancone mentre un uomo calvo in tuta nera scarica il furgone brontolando. L’autobus C11 transita qui dai quartieri nababbi al frastuono d’odori di Archway. Avevo un lavoretto provvisorio come sguattero in una Brasserie in questa parte della città nel lontano 1989. Pendolare appiedato da Cricklewood a Chalk Farm a comporre canzoni nella testa, Moving in Greyland I touch the sky, I need no mantra nor the smell of incense, e sulla via del ritorno felice di respirare la città semiaperta con un petto di pollo crudo nella tasca posteriore arraffato a ravvivare la cena nel monolocale dove se appendi l’asciugamano alla finestra s’annerisce. O quella volta scesi dall’aereo con trenta sterline in tasca da Mumbai la prima visione di Londra la città che amo, a carpire un narciso in un giardino privato da regalare al padre della mia ex per il suo compleanno in cambio di qualche giorno di ospitalità giusto per orientarci. E nel taxi nero da Green Park a Cricklewood la vista di Abbey Road mi sembrò inverosimilie. Mi piacevano i Beatles al tempo ma a dire il vero mi annoiano a morte adesso con le loro vignette e i cori e il loro aspetto di avvocatucci di provincia.

Primrose Hill Road nella luce dorata e all’angolo il magniloquente Britannia Hotel. Grazie al cielo la Bretagna da tempo non governa più gli oceani. Non massacra più contadini ribelli a Bronte, Sicilia, 1860. Non governa più le onde la Bretagna come nel sogno contorto di vanagloriosi e pericolosi cretini e nonostante tutto quant’è bello al mattino quando i lampioni si spengono insieme magia. Pissarro aveva ragione e i coloristi sbagliano: più fa freddo, più i colori diventano caldi. La natura si colora d’inverno e si raffredda d’estate; non c’è nulla di più gelido del sole d’agosto. La torre BT nella calda distanza è un monumento involontario a Arthur Rimbaud, il più grande dei poeti: costruita sullo stesso luogo dove abitò brevemente con Verlaine prima di spostarsi a Royal College Street dove passando con l’autobus 46 ogni sabato di ritorno dalla British Library mi levo il berretto in segno di rispetto, e dove gli sparò sulla gamba durante un battibecco. Pochissimi fra gli isolani si sono avveduti del passaggio del poeta adolescente perchè invece dei poeti qui come nel mio luogo natìo applaudiscono buffoni, celebrità e oligarchi. Ma Rimbaud lo dice ancora, per chi è pronto ad ascoltare:

Ho teso corde da campanile a campanile;
ghirlande da finestra a finestra;
catene d’oro da stella a stella, e danzo.

Ci siamo quasi. Tra boutique alla moda, caffé sciccosi e negozi biologici, scorgo con un sospiro la casa dove abitò un uomo generoso, Friedrich Engels. Qui veniva Marx la domenica a piedi da Kentish Town con la famigliola e i sette figli (prima che la povertà ne uccidesse quattro) a passeggiare con la piccola Jenny sulle spalle e a discutere nel parco con il suo amico e patrono.  Dense nuvole azzurre in marcia verso l’oriente, il cielo tragico e le persone sotto il firmamento anch’esse come nuvole. Bellezza, fragilità; il potere autentico è poter essere sopraffatto da tanta tristezza e tanto splendore. E c’è dell’altro: la gioia che cade inaspettata come la nebbia, ti pervade e da dove viene e quanto rimarrà? Torni sui tuoi passi per ritrovarla ma è già svanita.

Nel sogno della notte scorsa, entro trasandato in un’aula semivuota, dove il Professor Sparalesto siede in cattedra con altri dignitari della psicoterapia esistenziale. Mi arrampico malamente su una panchina trascinando una gamba per segnalare il mio status di estraneo e trovo un posto a sedere mentre l’aula irta d’aspettative comincia a riempirsi. Ma lo sappiamo tutti che Godot non si farà vivo. Considero in breve se vale la pena coinvolgermi, poi compongo una letterina che non spedirò: Carissimi Signori, non voglio essere “incluso” nel vostro dialogo relazionale. Non sono un supplicante. Se davvero volete conversare, incontriamoci fuori prima che faccia buio. Ordino un paio di pizzette e ce ne stiamo a guardare il mare avvolto nella nebbia.

Due giovani camminatori in cima alla collina fotografano Londra, la mia antica sposa e amante, vestita a festa ma la festa è finita, non è mai iniziata, Londra velata dalla foschia, incantevole enigmatica. Solo un rozzo onanista heideggeriano che non sa nulla dell’arte dell’amore e della seduzione la vorrebbe svelata a esporre la cosiddetta nuda verità. A Chalcot Square, a due passi dal mio ufficio, do un’occhiata alla casa di Sylvia Plath e penso alla sua poesia Daddy, dove patriarcato e fascismo si danno la mano. Sono arrivato. Apro il portone, metto su il bollitore e mi preparo per il mio primo cliente tra dieci minuti.

Manu Bazzano

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