Tennessee Williams, l’obbrobrio, lo scherzo della natura, il lato amaro del declino

Dal momento in cui Frank era morto, Thomas non aveva più aperto bocca. Che l’uomo con cui aveva condiviso gli ultimi sedici anni fosse condannato, Thomas lo sapeva dal giorno in cui il medico al quale si erano rivolti aveva detto loro i risultati degli esami. La diagnosi era inappellabile. Battevano ancora incessanti quelle frasi smozzicate sulle tempie di Thomas: forma aggressiva, pochi mesi, forse un anno. Eppure soltanto ora che la fine di Frank era penetrata veloce come un proiettile nel mezzo dei suoi occhi, Thomas non riusciva a credere che quell’uomo pieno di vita se ne fosse andato così in fretta. Aveva poco più di quaranta anni, Frank. E rappresentava per Thomas quel saldo focolare domestico che la sua famiglia di origine non era per niente riuscita a essere. Tutte quelle fragilità che si portava appresso fin dall’infanzia, Thomas le aveva riversate nelle sue storie dai toni lividi e grotteschi. In esse, fragili creature soccombevano, crude incarnazioni maligne avevano il sopravvento e una intristita umanità si dibatteva tra i panorami della sua terra natia che assomigliava a un oscuro girone infernale. Declinate per la scena, quelle trame cupe avevano donato a Thomas una popolarità senza pari. Tutto questo, lui ne era consapevole, era il risultato della stabilità in cui aveva potuto lavorare senza distrazione alcuna. E quella pace era incarnata da Frank. Era Frank a emanarla e a trasferirla nello spirito di Thomas affinché lui potesse dare il via libera alla sua immaginazione e scrivere. Una immaginazione che aveva radici profonde e lontane in quel Mississippi che lo tormentava e non smetteva mai di generare infinite variazioni sui temi della colpa e del timore inconfessabile della solitudine. Eccola, quella maledetta, pensava Thomas ora che Frank se ne era andato. Come sarebbe ancora riuscito a plasmare quelle personali umiliazioni infantili rendendole universali ora che la sicurezza donatagli da Frank si era sbriciolata? Cominciò a bere, sempre di più. Smise lentamente di scrivere. E mentre i produttori gli chiedevano con insistenza nuovi testi da mettere in scena, Thomas si chiuse man mano nelle spire di quell’appannato torpore alcolico che riporta in vita i morti per brevissimi istanti. Ecco Cornelius, suo padre. Sprezzante, superbo. Si considerava il messaggero di Dio in terra e aveva preso di mira Thomas fin da bambino. Non era come gli altri, Thomas. Non sentiva come gli altri. Cornelius lo riteneva un obbrobrio. Uno scherzo della natura. Effeminato questo tuo figlio, rinfacciava Cornelius alla moglie. Effeminato, ripeteva tra sé sancendo così una manifesta convinzione della inferiorità che attribuiva alla donna. Ecco Edwina, la madre di Thomas. Silenziosa, distante, ligia ai doveri. Devota all’immagine ufficiale che la famiglia mostrava in pubblico. Un quadro distorto della realtà da tutti accettato per mantenere il decoro che garantisce l’ordine. Una stabilità che genera mostri, talvolta innocenti. Ecco allora Rose, la sorella di Thomas. Lei lo accoglie, lo comprende. Rose riesce per brevi momenti a non farlo sentire una bizzarra creatura fuori posto. Più fragile di Thomas, Rose finirà con il rifugiarsi in un mondo immaginario, il solo in grado di non ferirla. Non c’era posto per Thomas nell’universo privato di Rose, che sparirà presto dai ritratti ufficiali di famiglia, inghiottita senza possibilità di scampo tra le pareti della camera di un manicomio. Ecco infine il reverendo Dakin, il nonno di Thomas. Legato al nipote da un affetto profondo, lo porterà via con sé prima che l’arcigno male di famiglia abbia la meglio anche sul ragazzo. Arrivarono in Florida. Il veleno era arrivato fin nelle viscere dell’animo di Thomas. Tuttavia era sopravvissuto. Danneggiato, ma vivo. Lo attendeva la scrittura, il solo strumento capace di spurgare tutto il livore che aveva in corpo. Lo attendeva una fama toccata a pochi artisti in vita e rinvigorita dall’amore che il cinema aveva da subito espresso nei confronti della sua opera. E lo attendeva Frank. E in uno dei rari frammenti di lucidità tra una bottiglia e l’altra, Thomas ripensò al solo romanzo che aveva scritto parecchi anni prima. Un racconto di perdita e disillusione. Il ritratto dell’amaro declino che aveva dinanzi a lui.

Karen era stata una attrice famosa un tempo. Fin da giovanissima aveva calcato le scene di Broadway dove le sue apparizioni avevano suscitato l’entusiasmo delle platee e l’ammirazione degli addetti ai lavori. Karen aveva mostrato un talento raro unito a una bellezza folgorante. Gli anni erano passati, il talento era cresciuto, la bellezza si era affievolita. E malgrado le sue capacità, gli ingaggi cominciavano a latitare. Il mondo del teatro sembrava assomigliare a quello del cinema e così come a Hollywood non parevano esserci parti per una donna dopo i quaranta anni, così accadeva anche a Broadway.

E Karen questo non se lo era aspettato. Non su un palcoscenico, non laddove barare sul proprio talento era impossibile. O lo avevi, o non c’era mai stato. Karen questo lo sapeva bene. Per questo il rammarico di essere chiamata sempre meno fu grande. La fierezza restava però intatta. Da sempre più attenta al lavoro che al privato, si decise ora ad accettare la corte di un maturo ammiratore. Lui la colmava di attenzioni, lei ricambiava con una tenerezza sincera. Il tempo per l’amore era ormai trascorso. La felicità era un ideale irraggiungibile, la gioia era la sola concretezza possibile. Alla morte di quell’uomo devoto, Karen scelse di viaggiare. Fissò la partenza per la primavera e Roma come prima tappa. La guerra era terminata da poco e solo prestando attenzione ai dettagli si poteva cogliere la sofferenza che aveva lasciato tra le persone che popolavano quella città in cui Karen si sentiva come a casa. Amava frequentare i mercati e i vicoli popolari, si immerse nei musei e nelle sartorie, assaporò i profumi e le sensazioni di una nuova vita. Un altro corso inaspettato. Il suo nome non diceva niente a nessuno, essere stata una star di Broadway non era lo stesso che essere una diva del cinema. Furono i suoi soldi a calamitare su di lei la curiosità della aristocrazia capitolina. Di colpo si ritrovò a ricevere inviti per partecipare a feste in maschera o per assistere a prime teatrali. E poi c’erano i salotti, quelli in cui passavano tutti quelli che contavano. Quelli in cui tutto si sapeva di tutti e si intrallazzava sottobanco per vincere la noia. Fu in uno di questi ritrovi che le venne presentato Paolo. Giovane e pieno di fascino. Elegante e raffinato. Eppure dotato di una bellezza quasi popolana. Animalesca. Lui comincia a corteggiarla un attimo dopo le presentazioni. Lei sembra restia di fronte a quell’interesse discreto ma deciso. Poi cede. E la passione che mai aveva provato per un uomo prima di allora tracimò dentro di lei. Trascinandola verso la rovina. Decise che avrebbe prolungato la sua permanenza a Roma. Lo invitò a vivere con lei nel grande appartamento che occupava. Al principio tutto filò liscio, tra mondanità e spese folli. Lei non gli faceva mancare nulla. Lui viveva alle spalle di Karen. Lei era troppo ubriaca di lui per accorgersi che qualcosa non tornava in quel legame. Karen era convinta che Paolo la amasse davvero. Come aveva potuto non rendersi conto della pessima recita messa in campo da lui? Se lo sarebbe chiesta spesso in seguito. Dopotutto era lei l’attrice. Forse le finzioni d’amore battono quelle teatrali, sono superiori. Comparve Barbara, giovane americana, stella del cinema in ascesa. E Paolo sparì senza dare spiegazioni, lasciando a Karen una amarissima visione del futuro. Il viaggio era concluso. Karen decise di tornare al punto di partenza, la dimora nella quale aveva vissuto con il marito. E prima di lasciare Roma, venne a sapere una verità indigesta: la nobildonna che in quel salotto mondano le aveva presentato Paolo era una nota ruffiana. E Paolo si dava per denaro a ricche signore sul viale del tramonto. Non si voltò indietro, Karen. Non pianse, non si disperò. Almeno esteriormente, nulla lasciò trasparire. Si isolò dal mondo affinché nessuno potesse notare le ferite profonde che aveva riportato dal suo viaggio. E non si mostrò più a nessuno.

Thomas stentava a credere di aver scritto la storia di Karen in un momento di grande felicità creativa e personale. Come erano distanti quei giorni, ora che Frank non c’era più. Avrebbe ripreso a scrivere, di questo ne era certo. Quello che non poteva immaginare in quei giorni di lutto era che dalle opere che avrebbe creato in seguito la vita sarebbe stata del tutto assente. Sarebbero state opere inerti, prive del respiro che l’amore nutrito per Frank aveva donato per anni al suo lavoro di drammaturgo. E la scomparsa della fecondità avrebbe coinciso con la morte del suo successo. La fine di Thomas come quella di Karen.
Thomas Lanier Williams fu rinvenuto cadavere nella stanza di un hotel di New York, dove viveva, una fredda mattina di febbraio del 1983. Le circostanze della sua fine non sono mai state chiarite. Morì solo. Era noto a tutti come Tennessee Williams.

Alex Marcolla

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