Su Josephine Hart. Nella ricerca del buio ritrovare la luce

Malgrado cercasse di non dare nell’occhio, Bethesda sentiva gli sguardi dei suoi compaesani sfiorarla con insistenza. Non si chiedeva mai perché la tenessero d’occhio, lo sapeva e basta. Si alzava molto presto al mattino. C’era la casa da governare, poi sua madre a cui prestare attenzione. Da tempo la madre di Bethesda non era più in grado di badare a se stessa, così la figlia se ne prendeva cura prima di andare al lavoro. Alla sera, una volta tornata a casa, Bethesda preparava la cena, riordinava e metteva sua madre a dormire. I ruoli si erano scambiati, non ne parlavano, ma era evidente a entrambe. E poi c’erano le notti, quelle che Bethesda dedicava alla pittura. Intere nottate a conferire una forma a quei pensieri aggrovigliati che bruciavano le sue carni e non le davano tregua. A Bethesda sembrava di nascondere bene agli occhi altrui quelle crepe interiori. Di giorno era una anonima insegnante d’arte nella scuola del villaggio, di notte invece si liberava di tutto quello che la privava del respiro e come in un sabba frenetico calcava il pennello sulle tele aspettando un istante di luce piena. Un solo, piccolo momento di verità in una rigida esistenza stretta tra l’abitudine e le regole assurde cucite sulla pelle delle donne. Un mondo di menzogne chiamate con nomi altisonanti: virtù, matrimonio, Dio… Era da poco cominciato il ‘900. Un nuovo albore che prometteva una caotica frenesia della vita. E una ostinata necessità di luce autentica capace di scardinare secoli di tenebre. Tutto questo era fin troppo chiaro nella mente di Bethesda e con sempre maggiore fatica si tratteneva dal manifestare quel desiderio insopportabile di concreta libertà. Ecco il perché degli sguardi scostanti degli altri. Temevano che Bethesda presto o tardi avrebbe portato lo scompiglio di quei tempi incerti in mezzo a loro. Ma Bethesda non era la sola a essere mal vista.
Lord Grantleigh aveva viaggiato molto. E amava l’arte. Gli era capitato di assistere a una lezione di Bethesda e aveva intuito quello spirito irrequieto sul punto di deflagrare. Grantleigh le chiese di poter vedere i suoi lavori, intuiva che esistevano da qualche parte, lo aveva compreso quel giorno appoggiato alla parete in fondo all’aula osservandola disegnare davanti alla classe. Bethesda non era solo una insegnante, di questo Grantleigh ne era consapevole. Davanti ai quadri che Bethesda gli mostrò, lui rimase senza fiato. Era turbato, Grantleigh. Non per le ragioni che avrebbero potuto agitare gli abitanti del paese. No, non per simili sciocchezze. Grantleigh era sbalordito perché nel tratto ferino inciso sulla tela da Bethesda rivedeva l’arte moderna in cui si era imbattuto di frequente nel corso del suo vagabondare. Quel poco di modernità a cui Bethesda aveva avuto accesso proveniva da libri non recentissimi. Tuttavia, lei emanava lo spirito dei tempi senza aver visto nulla di persona. Senza aver mai condiviso con altri la sua ispirazione. Grantleigh si propose come suo mecenate, Bethesda accettò.
A scuola fece la sua comparsa un nuovo insegnante. Mathew all’apparenza non si discostava dalle rigorose consuetudini che reggevano la vita di tutti nel villaggio. Un giovanotto come tanti, sposato con una ragazza come tante. Alla fine, Bethesda avvertì che la luce a lungo attesa dimorava tra le viscere di Mathew. Dal momento in cui se ne rese conto, nelle veglie notturne di Bethesda gli specchi presero il posto dei quadri. E sopra quelle nuove superfici, Bethesda impresse il suo volto e quello di Mathew in un’unica cruda immagine di indissolubile verità. Mathew era la luce. Mathew era la musa. Tuttavia, l’anonimo insegnante che solo Bethesda aveva notato era a un passo dal diventare padre. Mary, la giovane qualunque che Mathew aveva sposato, avrebbe avuto a breve un bambino. Bethesda avvicinò Mary, desiderosa di conoscerla. Cercò di comprendere il mistero di quella unione, si intestardì nella ricerca di ciò che si poteva celare al di là della convenzione matrimoniale così come appariva anche quella che teneva insieme i due giovani. E al momento del parto, sentendo avvicinare quell’agognato istante di luce piena, Bethesda compì un inconcepibile cenno di sfregio verso le tradizioni inamovibili della sua comunità. Nel pieno del travaglio, spinta dalla compassione per i dolori sopportati da Mary e dal bisogno di un estremo segno creatore in grado di squarciare le tenebre, Bethesda eseguì un cesareo di emergenza sulla moglie di Mathew utilizzando il pezzo di uno specchio. Uno di quelli su cui era solita dipingere se stessa e Mathew, la sua musa. Nacque una bambina. La madre morì. E malgrado l’intervento di Grantleigh in sua difesa, Bethesda fu allontanata dal villaggio. Esiliata, quasi fosse una strega. Per aver evocato un solo istante di luce piena.

Nella sua stanza di ospedale, Josephine osservava il paesaggio attraverso la finestra. Com’era cambiata Londra da quando vi aveva messo piede per la prima volta negli anni ’60. Anche Josephine aspettava. Non la luce che affliggeva Bethesda, il personaggio che aveva creato. Josephine aspettava il buio, quello che di lì a breve l’avrebbe trascinata via con sé. Josephine sapeva che stava morendo. Ripensava al passato, sostava con il pensiero su ogni singolo evento. La sua terra natia, l’Irlanda. La sua famiglia numerosa. E quei suoi fratelli perduti per la causa irlandese. Un dolore atroce da cui soltanto la poesia l’aveva salvata. Eppure il danno c’era stato. Dentro di lei c’era ancora. Era sopravvissuta e le persone come lei sapevano di essere pericolose per via di quel danno che le spingeva a vivere. Ne aveva scritto nel suo primo libro. Pochi però allora avevano compreso che Josephine parlasse di se stessa. La popolarità immensa di quel libro aveva distolto l’attenzione da quel che lei intendeva raccontare: quella ferita che nessuna cura può rimarginare, quella crepa che non permette più a nulla di scalfirti, quel danno che mette in serio pericolo la tua stessa capacità di provare ancora una qualunque emozione. Altri libri erano seguiti a quel fortunato esordio. Altre pagine in cui era tornata con spietata insistenza su quel tema, sviscerandolo in ogni possibile piega. Il successo del suo primo libro però l’aveva incasellata e tutti quelli che compravano i suoi romanzi, inclusi gli addetti ai lavori, non la leggevano affatto. Si limitavano a scorrere gli occhi da una riga all’altra. E questo non equivale a leggere. Ora a Josephine era chiaro perché avesse creato Bethesda. Era stato il suo libro meno fortunato. Peggio, era stato quasi del tutto ignorato. I suoi lettori abituali non l’avevano compreso, molti di loro ne erano stati disgustati. I critici l’avevano accolto come una bizzarria, nessuno di quei professionisti aveva saputo risalire alla parentela tra Bethesda e Hester Prynne, nessuno di loro aveva inteso la caparbia fame di vera luce che lambiva senza tregua le vite di Hester e Bethesda. E quella di Josephine. Sorrideva lei, in quel momento. La storia di Bethesda era dopotutto un estremo atto di ribellione contro tutti quelli che non si sforzavano di comprendere il danno irreversibile subito da Josephine. E il risultato di quel gesto di insofferenza era stato un pacato imbarazzo. Josephine come Bethesda aveva infranto la beneducata routine sociale, il guanto di sfida lanciato era stato raccolto e rimandato con cortesia al mittente. E lo scandalo di una donna che racconta il dolore senza ammantarlo di sentimentalismo era stato soffocato da una melensa buona educazione. Non era solo Londra a essere cambiata, rimuginava Josephine ora. È l’intero nostro mondo, ormai anestetizzato. E tornando di nuovo a quel suo libro sfortunato, quanto era fiera Josephine di Bethesda. Quanta gioia le dava a un passo dalla fine il pensiero di aver scritto quel romanzo.

Josephine Hart, l’autrice del celeberrimo Damage, è morta a Londra nel 2011. The Stillest Day, il suo libro meno noto, era stato pubblicato nel 1998.

Alex Marcolla

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