Salvator Rosa, il genio briccone, maestro ribelle di sprezzatura

O taci, o dici qualcosa che sia migliore del silenzio

Non mi è mai piaciuto fare critica letteraria, l’ho sempre trovata un’attività per passare il tempo in giardino a primavera quando non hai i piedi per andare in giro, e l’ho sempre tenuta a distanza con la convinzione che la si faccia con due scopi molto bassi: esaltare o distruggere. Non fa per me la foia della guerra e della stampa. Mi piace parlare dei libri che ho amato, e da cui mi sono sentito amato a mia volta. E ancora di più, degli autori che pur essendo morti, sono ancora qui vicino a te mentre li rileggi. Questa è una sensazione che ho provato fin da ragazzo, quando vivevo ancora in Italia, con mia madre, e colmavo la mancanza di un padre rifugiandomi nelle letture delle opere dei figli della mia città, quasi come se nella sua storia letteraria ritrovassi la mia storia familiare e riuscissi a capirci qualcosa. Ciò non è mai accaduto, ma in compenso ho scoperto scrittori memorabili, che mi hanno accompagnato fino all’età adulta e ai quali devo parte della mia sanità mentale, se così si può definire.
Tra questi salvatori, ce n’è uno in particolare, che conobbi grazie al nome della strada in cui c’era la statua di mio nonno, Francesco. Mio nonno non era un sindaco né un personaggio illustre, ma da ragazzo per guadagnare qualcosa aveva posato per gli studenti dell’accademia di belle arti e una scultura che da lui aveva preso il corpo era stata esposta per strada e noi nipoti quando ci passavamo dicevamo sempre, ecco la statua del nonno, ecco la statua del nonno. Quella strada si chiamava Salvator Rosa.
Salvator Rosa è stato uno degli artisti napoletani del ‘600 più discussi dalla critica di cui sopra. Da lui ho imparato come trasformare la sofferenza in sarcasmo, ho imparato a rispettare gli eroi e disprezzare i falsi eroi, e ho imparato che chi ha un’indole ribelle non può metterla al servizio di nessun potere. Come Pascariello, la maschera, possiamo fingere di adulare chi ci governa in cambio di pane e salsiccia, ma prima o poi lo sdegno si palesa in lettere, su carta, ed è incancellabile, non esiste il correttore di bozze per lo sdegno, neanche la censura, né tantomeno l’autocensura. Che i giullari di corte lo tengano a mente.
La vita di Salvator Rosa è stata al centro di narrazioni tra l’epico e il romanzesco. Lo si è definito alchimista, ribelle, avventuriero. Poeta e pittore anticonvenzionale che metteva al bando gli artisti ruffiani e privi di scrupoli, venduti al mercato. Salvatoriello del mistero, dell’arte come iniziazione per varcare la soglia della Grande Opera. Quella che verrà scritta forse un giorno, per pochi eletti, menti volatili e celesti. Un pittore fuori moda, precursore di stili demoniaci e interprete eretico della classicità. Consapevole che l’uomo non è nulla di fronte al mistero, al cospetto del meraviglioso e del sovrannaturale. Parlava senza mezzi termini, seguiva l’istinto, un istinto beffardo e irascibile. Persino la morte diventava maschera e dal palco dei teatri romani e fiorentini Salvatore con un figlio strappato via dalla peste rideva nelle vesti di Pascariello, salvifico eteronimo.
Alcuni invece, in apice alle sue opere, lo hanno descritto come un mansueto padre di famiglia. La verità probabilmente è nelle sue lettere, in cui si rivelava agli amici e mentori, a Giovan Battista Ricciardi per esempio, che non è un commissario della moderna fiction, ma un uomo di lettere con cui Salvatore intrattenne un fitto carteggio. Assaporando la sua scrittura più intima, invece di studiare il Manzoni, passavo i pomeriggi a comprendere qualcun altro per comprendere me stesso, come fanno un sacco di ragazzi al liceo, e mi annotavo frasi, passi delle satire, delle poesie, senza immaginare che vent’anni dopo li avrei ritrovati, nello stesso posto, mentre svuotavo una casa appartenuta alla mia sgangherata famiglia e recuperavo i libri della mia infanzia e della mia adolescenza. Rivedere queste pagine sottolineate con la penna, perché le matite mi facevano venire i brividi, mi ha dato l’impressione di entrare dentro me stesso e un po’ ho pianto, ma questo non l’ho raccontato a nessuno.
Salvator Rosa doveva essere uno come me, non veniva dalla plebe, ma non era neanche un aristocratico, anzi, gli aristocratici dovevano indignarlo e non poco, anche se all’occorrenza sapeva sfruttarli, come facciamo tutti alla fine. Il distacco verso i potenti, per un artista come lui, non è quasi mai un vero distacco, lo chiamerei più un reciproco tollerarsi ognuno per i suoi scopi. I potenti insegnano al mondo a imputtanarsi, adoreranno l’unica cosa che sono in grado di comprendere, il denaro, mentre gli artisti ermetici come Salvator Rosa dipingeranno i loro demoni personali, scheletri abortiti da un’immaginazione visionaria e precorritrice di catastrofi fisiche e morali, tempi in cui la sdegnosa indipendenza si arrenderà al servilismo interessato, e i veri artisti si vergogneranno di essere definiti tali. Le sue parole, ancora una volta, mi hanno anticipato di quattro secoli alleviando forse i miei tormenti fino al prossimo libro:
Ma che si può mai fare né dire contro le nostre fatalità? In quanto a me, mi rido di tutto.

Franco Malanima

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