Camminare tra i corpi dei migranti, l’esercito degli invisibili

Corpi distesi, ammassati, rannicchiati, infreddoliti, arrossati, sporchi, coperti, scoperti, bagnati, malati, persi. Cammino lentamente, tra un corpo e l’altro cercando di non far loro troppo male. Cercando di non farmi troppo male. Guardo una bambina che ha fame, che piange, che ha poche forze per reclamare ancora il suo cibo. Un uomo che prega, si alza, si inginocchia, si alza di nuovo. E sussurra le sue preghiere mute. Delle mani cercano di passare il tempo giocando a carte, cercano di barare, di essere corretti, di sorridere, di far finta che sia tutto vero. Mosche. Pidocchi. Acari. Giocano anche loro. Qualcuno mangia. Seduto sul pavimento, gambe incrociate e porta il cucchiaio alla bocca. Non gli piace ma sa che deve cercare delle energie da qualche parte. Qualcuno aspetta. Quando non ci sono più ricordi a ferirti, si avanza a tentoni verso speranze che ci si immagina prima di arrivare.
Guardo i corpi aspettare. Guardo la storia del dolore. La storia di piedi, di corpi, di occhi, di rabbia, di ferite, di scabbia, di sudore, di coste viste da lontano.
Lunghe code di attesa per lo sbarco. Si invitano uomini e donne ad aspettare per incanalarsi, a trovare un motivo per essere accettati a riva. In silenzio, la fila è l’unico modo per sperare di essere definiti “cittadini” e non “avanzo residuale”. Avanzo, resto, fondo, eccedenza, sovrabbondanza. Relitto? Come si è bravi a definire quello che non si conosce.  
E mi viene in mente la scultura di Mimmo Paladino, in Sicilia: una porta nel punto più a Sud dell’isola di Lampedusa. la porta di 5 metri piena di ciotole, stoviglie, conchiglie, mani per i corpi nomadi del Mediterraneo. Forte come l’acciaio, fragile come la ceramica, una porta affacciata sull’Africa, per partire dalla visione di sé per incontrare l’altro, una riflessione per aprirci non a quello che già pensiamo di sapere, ma per incontrare riflessi di noi stessi, frammenti di risorse che sono sotto il nostro sguardo ma che non riusciamo a cogliere.
In realtà poi penso che tutto questo fascino di decidere il destino dell’altro, del migrante, articolare la sua voce, rubare la sua coscienza, modulare i suoi ritmi, decidere le sue rotte e cancellare il suo ritorno, sia causa ed effetto piuttosto di  una “smemoratezza” patteggiata con queste inutili quanto patetiche  “offerte” di memoria ai suoi morti.

L’idea di sacralizzazione dei confini fa parte di un autoritarismo, retaggio del sistema occidentalistico coloniale: la polarizzazione delle identità implica l’obbligo di appartenere a una sponda o all’altra. Tuttavia la traversata di milioni di migranti richiedenti asilo rovesciano questa visione stereotipata del mantenimento delle distanze. Sulle navi, in balia del mare per giorni e giorni l’appartenenza a una terra si sporca, si rovescia, si confonde, si rende vulnerabile. Lo spazio che sulla terraferma diventa ricerca burocratica di lasciapassare, il mare ce lo restituisce intatto, fluido, proiettato su migliaia di corpi aggrappati alla vita come pugili sentimentali, inghiottiti dallo spettro del non- ritorno, consumati dalla paura del non-approdo.
Ciò che ancora non è chiaro è che in tutto questo trafficare c’è la non osservanza di alcuni articoli della Dichiarazione dei Diritti Umani, (1948): articolo 13 – Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato; Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
Solo parole, conversazioni costruite intorno alla lista di identità smarrite. Perché qui si tratta di una cancellazione della cancellazione, un tentativo di incidere sulla superficie dell’acqua delle frontiere tra appartenenze che crollano poco a poco e appartenenze stereotipate da secoli.
Questa umanità intrappolata in uno stato di sospensione e totale immobilismo rimane così, come moltitudine giudicata a priori irregolare. A guardare i volti spenti di questi migranti, occhi delusi, mani impotenti, labbra contratte nell’impotenza dell’azione sembra di trovarsi davanti a ritratti di soldati dove ciascuno non porta con sé armi, solo la propria ombra, nell’intento di digerire un passato coloniale per costruire un presente immaginato. Purtroppo rimane ancora  questo esercito di invisibili, il loro essere “senza”, senza portafoglio, senza acqua, senza lingua madre, senza cure, senza asilo e senza soluzione. Definisce bene la parola “esilio” la scrittrice Maria Sebregondi, in Etimologiario, un piccolo dizionario etimologico, “Esilio: condizione molto delicata. Sospeso a fili sottilissimi, esili resti di origini lontane, chi vive in esilio sorvola lieve terre su cui non si posa mai”.

Lara Carbonara

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