Il panno rosso è caduto ai piedi della donna zoppa e dell’uomo con la gobba

Sentì suonare. Nessuno aveva quell’indirizzo. Quando sbarcava era un fuggiasco, evitava di dire dove alloggiava, non aveva un recapito fisso. Amici e parenti ci erano abituati.
Quando vuole, si fa vivo lui! dicevano.
Ora che non c’erano più i genitori, era anche peggio. Era un immigrato nella sua città.
Il citofono suonò con l’ingenuità di un bambino che entra in una casa senza sapere chi ci vive. Per il bambino non fa differenza, corre dentro e urla, annuncia il suo arrivo entusiasta e pieno di gioia. Quel campanello diede a Ninù la stessa impressione. Incurante dei suoi pensieri, irrispettoso, stupidamente contento. Sentì il suono stridulo più volte. Non capì subito cosa fare, restò un attimo immobile davanti alla porta. Erano anni che non accoglieva qualcuno in una vera casa. Lavorare in nave cancella le abitudini domestiche. Sarà la proprietaria, avrà inventato altre clausole per chiedermi più soldi, pensò, e aprì la porta. Dalle scale arrivò il rumore della ringhiera che vibrava. Qualcuno stava salendo tenendosi al corrimano come i vecchietti.
Apparve Rossana. Il viso perso in un’espressione di spaesamento. Sembrava che stesse uscendo da una tomba. Sapeva da che parte era l’appartamento. Dopo aver ripreso a respirare regolarmente, svoltò a sinistra e si diresse verso la porta.
Fammi entrare marinaio. Ti devo chiedere un favore.
Era molto bella. Le altre volte non aveva mostrato la sua vera faccia. Una statua appena inaugurata. Il panno rosso è caduto ai piedi della donna zoppa. L’uomo con la gobba ha aperto gli occhi e si è detto: con una persona così mi viene voglia di andare in montagna a cercare i funghi.
Non le chiese come facesse a sapere di quell’appartamento. La fece sedere sul divano verde e le offrì il suo caffè schifoso. Bestemmiarono insieme quando sentirono in bocca il sapore stantio del calcare e quelle imprecazioni li unirono in una dimensione intima, fatta di vecchie intese, di comprensioni. Fuori, il sole nascondeva le finestre e proteggeva dalla strada. I bambini giocavano col pallone mirando al cancello arrugginito. Lo avrebbero aggiustato a forza di calci e la serratura avrebbe ripreso a funzionare.
Su una sedia, i vestiti bagnati di Lena respiravano al ritmo veloce dei moribondi. Li comprava nel mercato di Resina, erano vestiti che avevano già vissuto altre vite, giacche militari, bombette, salopette, le piacevano per questo.
La regina dei leoni sta ancora dormendo? chiese Rossana.
L’ho accompagnata da sua madre, avevano da fare.
La madre spera di passarle il posto in farmacia, non vede l’ora di andare in pensione solo per il gusto di vederla sistemata. Il posto, il posto… Lena se ne frega.
Ninù sorrise con la sigaretta appesa alle dita. Conosceva quell’argomento e sapeva che non era di questo che Rossana voleva parlargli. La guardò ancora senza alcun timore. Dopo averla incontrata per metà in un sogno, per metà su un altro divano, quella notte a casa sua, Rossana era diventata una figura astratta, non apparteneva più ai vivi, ma si era guadagnata un posto tra i morti. Parlare con lei era come parlare con suo padre e sua madre. Bevvero ancora. Misero la grappa nel caffè per camuffare il sapore di fogna e aprirono una bottiglia di Pata Negra che la proprietaria di casa doveva aver comprato per le grandi occasioni. C’era ancora la plastica intorno al tappo.
Dal terrazzo si vedevano i giardini in cui i bambini calciavano forte e invocavano la Madonna e Maradona, il loro sangue, ogni volta che non centravano la porta.
Ieri notte mi ha violentata, disse Rossana d’un colpo.
Guardava per terra, non sapeva perché lo stesse rivelando a uno sconosciuto, uno che a Napoli ci metteva piede una volta l’anno. Ninù la guardò, poi guardò per terra anche lui. Per la prima volta in vita sua, si vergognò di essere un uomo.
Rossana usò la parola violentata con molta difficoltà, balbettando. Poi aggiunse:
Ho riflettuto su quello che mi avevi detto e ho deciso di andarmene. Ma quando ho provato a parlargliene, mi ha picchiata e mi ha costretta a inginocchiarmi sul tavolo mentre lui si masturbava dietro di me. È stato terribile, mi insultava, urlava: troia, puttana. È stata una sofferenza peggiore degli schiaffi. Mi sono sentita all’ultimo stadio prima della feccia di cui deve essere fatto l’inferno. L’inferno o l’umanità, è la stessa cosa.
Se fossi rimasta in quella casa, nessuno, compreso me, ti avrebbe salvata. Questo lo sai.
Si sorrisero. Ninù le accarezzò di nuovo la guancia e la pancia, ma stavolta non era un sogno, era sicuro di essere sveglio. Grandini aveva privato quella donna di una vita normale. Cosa trovava la sua lingua quando entrava in quella bocca solo per metà umana? E quando quelle mani fredde la accarezzavano e le stringevano i fianchi sbattendola sul tavolo con tutta la violenza delle cantine in cui era cresciuto, cosa si provava? Rossana non lo avrebbe mai raccontato. Erano segreti osceni e mostruosi che teneva per sé.
I suoi occhi erano ancora svelti e insolenti come l’ultima volta. Forse stava per rivelargli ancora qualcosa sulla giovinezza di Lena. Di quando aveva iniziato a dipingere animali senza pelle. Invece parlarono del futuro, l’argomento spaventoso su cui tutti sanno e nessuno sa. Ninù sperava solo di imbarcarsi il prima possibile, non era vero che gli sarebbe piaciuto stabilirsi da qualche parte. Quella era roba che raccontava per darsi arie da uomo vissuto, bisognoso di stabilità.
Rossana si accarezzava le braccia e i capelli. Teneva la gamba più corta piegata sul divano, in modo che non si vedesse la differenza. Parlò piano guardando Ninù negli occhi:
Non hanno l’alloggio nel ristorante dove lavoro, e non posso tornare da lui. La prossima volta mi ammazza.
Ninù guardò i bambini di sotto, la gente che passava e salutava la vecchia inginocchiata a cercare i gatti. Ascoltò le bestemmie dalle auto imbottigliate nel traffico, bestemmie divertenti che non facevano arrabbiare ma alleviavano l’attesa. Tutto quello era la vita, mentre il mare, le navi, la casa vuota e fredda, erano non-vita. Le rispose:
Vattene a casa dei miei genitori. Loro non ci vivono più. Stanno da un’altra parte. Prelevano l’affitto dal mio conto. Gliela stavo pagando io. Se siete in due, qualche collega, un uomo normale che magari ti ama, mi pagate lo stesso e ai proprietari non dico nulla, altrimenti col pretesto di un nuovo contratto aumentano l’affitto. I proprietari delle case sono zoccole gelose della loro tana. Te la cedono, ma dal buco piano piano ti rosicchiano le ossa a partire dai talloni. Intanto ti ci puoi trasferire, pure stasera, funziona tutto.
E quant’è l’affitto? Io non ho una lira da parte, Ninù!
Non ti preoccupare, poi vediamo. Intanto vai.
Così mi stai salvando. Ti vuoi mettere a salvare la gente, marinaio?
Vedila come vuoi. Qualcuno deve pur andarci a vivere. Le case sono fatte apposta.
Ma a te, chi ti salva Ninù?
L’ultima cosa che aveva intenzione di fare era il buon sammaritano. Le disse quello che pensava:
L’umanità, come la chiami tu, non la possiamo salvare noialtri con quattro soldi che ci passano per campare fino a fine mese. A che serve aiutare la gente se poi c’è un’intera città che funziona al contrario. Se abbiamo malapena il tempo di dormire poco, mangiare male e morire sempre troppo presto. Più sei povero, più ti tassano. Soldi ai soldi. Fame alla fame.
Guardò ancora i bambini. Alcuni giocavano a pallone, avevano creato l’area di rigore con il gesso e le porte con gli zaini di scuola. Uno di loro calciò con la punta e la palla volò in alto, fuori dalla porta. Il bambino corse a recuperarla, sotto la finestra di Ninù. I loro sguardi si incrociarono, il primo temeva di essere sgridato perché sapeva bene che c’era il divieto di giocare in quella piazzetta, lui invece gli sorrise e lo chiamò:
Avvicinati, vieni qua, gli disse a bassa voce. Guagliò! guarda qua. Devi fare così, il ginocchio e il busto piegati in avanti, sennò s’impenna.
Grazie capo. Lo so, lo so.
Altri ragazzini si appartavano lungo il muro basso che girava intorno al palazzo, imbrattato dai graffiti, un muro che non nascondeva né custodiva, un confine tra la piazzetta della scoperta e il cortile delle punizioni. Erano anni che non vedeva una piazza con quegli occhi, scovando gli angoli in cui si potevano inventare tanti giochi, nascondersi con i fidanzatini, giocare alla guerra.
Da quanto tempo le piazze sono diventate vuote e prive di angoli? si chiese Ninù voltandosi di nuovo verso la sala.
Rossana lo ringraziò baciandogli una mano, lo stesso gesto della notte in cui lo aveva svegliato. Se ne fregava delle piazze. Si sedettero sul divano magico di velluto, smisero di parlare degli affitti. Dei soldi, non importava niente né a lui né a lei. Avrebbe potuto abbracciarla, confortarla e prometterle che tutto sarebbe andato bene, ma non ne era capace. E poi nessuno poteva promettere un bel niente a nessuno in un posto come quello.
Le chiavi ce l’ha mia zia, Finizia, la sorella di mia madre. La trovi la domenica mattina nel bar all’angolo tra Via Bologna e Via Firenze, il figlio lavora lì. La chiamo per dirle che deve farti una copia.
Come mi riconosce? disse Rossana. Nessuno dà un mazzo di chiavi a una sconosciuta. Andiamoci insieme, facciamo due passi. Poi ti offro la pizza da Michele. Andiamo a vedere anche i negozi, ti consiglio un regalo per Lena.
Non ce n’è bisogno, non ti preoccupare, zia Finizia riconosce subito le persone buone.
Rossana sorrise ancora. Gli disse che in fondo Lena non era una stronza. E gli disse un’ultima cosa, che forse Ninù sapeva già:
Devo mandare qualcuno a riprendere i libri, è inutile lasciarli in quella casa.
Se si è salvata è merito di quei libri, pensò Ninù. La guardò bene. Gli occhi vivi, i lividi quasi spariti. Nessun altro oltre se stessa l’avrebbe potuta trascinare qui stamattina. Ci è venuta coi suoi piedi, zoppicando. Quanto è forte la voglia di essere felice in questa donna. E io che cammino con tutti e due i piedi ho bisogno di ubriacarmi per addormentarmi e ho paura di rimanere più di una settimana nello stesso letto.
Molto di rado aveva parlato così da vicino con una donna senza pensare di finirci a letto o che lei volesse portarlo a letto. Era stato educato così. Le femmine… quando si fanno male te lo dicono? aveva chiesto a quelli più grandi, nel Serraglio. Dopo tanti anni, capiva di quale male si stava preoccupando.

Franco Malanima
(da La città del cordoglio)

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