Violette Leduc, la donna brutta, la bastarda, il deserto che monologa

Prigioniera in quel letto di ospedale, Violette provava nostalgia per la campagna che circondava Faucon. Curioso, pensava Violette. Non era Parigi a mancarle, non era Madame ora a invadere i suoi pensieri tenendola desta notte dopo notte. Stava morendo e avvertiva i morsi della paura. Stava morendo come era vissuta, in modo straziante. Eppure, un piccolo lucido frammento di sé ancora fremeva all’idea che Madame potesse entrare dalla porta della stanzetta nella quale era confinata. Forse Madame avrebbe potuto salvarmi anche questa volta, pensava Violette. Erano passati però i tempi in cui Violette attribuiva a Madame poteri soprannaturali. Era così che la vedeva, come una divinità. Altera, distaccata, crudele talvolta, onnipotente sempre. E Violette che la venerava, affamata degli sguardi di Madame, assetata di poche semplici parole di approvazione sussurrate con il rigore di quella voce che non ammetteva altro se non una tiepida amicizia. Come poteva essere cominciato quel vortice che l’aveva rapita tutti quegli anni? Se lo chiedeva Violette nei rari momenti in cui la terapia contro il male che le aveva aggredito il corpo la strappava alla veglia, obbligandola a quel nulla che presto sarebbe stata la sua nuova casa. Era il 1942, l’anno in cui Maurice aveva portato Violette con sé in Normandia. La guerra diventava sempre più cruenta, la fame assillante non faceva altro che rimarcare quel periodo di atrocità diffuse tra la popolazione della Francia occupata. Occorreva trovare un modo per riempire lo stomaco. Solo Maurice con la sua spavalda faccia tosta avrebbe escogitato un sicuro stratagemma per reperire  il denaro necessario a tirare avanti. Dopotutto, Maurice avrebbe venduto anche sua madre. E questo anche prima che la guerra li rendesse entrambi ancor più miserabili di quel che erano. Violette aveva amato Maurice. Un amore senza futuro, come tutti quelli nei quali Violette si impelagava con ostinazione. Maurice era un omosessuale e uno scrittore di immenso talento. Era anche un delinquente. Un bugiardo che aveva rubato e mentito a chiunque pur di far la bella vita. Un bellimbusto che si era venduto al prossimo, anima e corpo. E Violette non riusciva allora a fare a meno di lui. Anche quando Maurice le dimostrava tutto il suo fastidio e tutto il suo disprezzo. Su al Nord cominciarono a vivere di mercato nero. Occupavano una stamberga per pochi spiccioli, i piatti in tavola non erano più vuoti e per la prima volta dopo mesi riuscivano a dormire al caldo. Nel tempo libero dai traffici poco raccomandabili in cui erano occupati, Violette si lamentava con Maurice. Lo assillava con la storia della sua nascita illegittima. Lo sfiancava rimarcando quanto sua madre la ritenesse colpevole di tutte le sue disgrazie per il solo fatto di averla partorita. E piagnucolava con stridore nel rimuginare su quanto la donna che l’aveva messa al mondo le rinfacciasse la sua estrema bruttezza. Della mancanza di grazia che tormentava Violette fin dalla giovinezza, Maurice non ne poteva più. Così come non riusciva più a tollerare quelle sue continue lagnanze. Le riteneva puro e inutile autocompiacimento. E un mattino, dopo la ennesima rauca invettiva contro un mondo che la respingeva, Maurice intimò con secchezza a Violette di piantarla. Doveva chiudere quella bocca e impugnare una penna. Se aveva così tanto da rimproverare al suo prossimo, non doveva far altro che scriverne. E dopo tante tenebre, una luce fioca sembrò far breccia nella mente aggrovigliata dall’astio di Violette. Si mise a scrivere. Di giorno seguiva Maurice a caccia di intrallazzi. Le notti, china sui fogli che riempiva di parole scritte con tratti decisi al lume tenue di una candela. Arrivò l’alba in cui Violette si accorse di avere tra le mani un libro. Il suo primo libro. E fu sorpresa da una gioia mai assaporata prima, quella che tocca all’artista che dona la vita attraverso la sua opera. La giornata coincise anche con l’addio di Maurice. Quella esistenza di stenti in Francia, Maurice non la sopportava più. Sarebbe andato in Germania, anche a costo di crepare tra rastrellamenti e bombe. E non desiderava avere Violette tra i piedi, questa volta. Si lasciarono e non si rividero più. La guerra inghiottì Maurice. Sparì senza lasciare traccia. E le sue opere postume gli garantirono una controversa eternità. Violette scelse di rientrare a Parigi. Sarebbe stato uno spostamento fortunoso, ma non le importava. Voleva far pubblicare il suo libro. Avrebbe significato il riscatto, quello definitivo. Ancora non sapeva che nella capitale la attendeva l’incontro decisivo, quello con Simone. La divina Madame.

Si gelava quel mattino di febbraio del 1945 in cui Violette sostava con il suo manoscritto sotto il braccio dinanzi all’ingresso del Café Flore. Dopo averne tanto sentito parlare, era riuscita per via di maneggi degni degli insegnamenti di Maurice a ottenere un incontro con Simone. È a lei che Violette aveva deciso di sottoporre il risultato delle sue faticose veglie notturne. Violette ne conosceva la fama e ne temeva il giudizio. Simone aveva soltanto un anno più di Violette e già occupava un posto di rilievo nel pantheon dei pensatori più illustri del suo tempo. Con le sue pagine, Simone aveva dato una radicale sferzata alle fondamenta dei desueti modi oppressivi con cui si immaginava lo stesso essere donna. Un vaso di Pandora chiuso ermeticamente per millenni era stato divelto da Simone e a dispetto delle reazioni inferocite di condanna che le scagliavano addosso, Simone non arretrava di un passo. Consapevole che indietro non si poteva tornare. Che troppo restava da fare ancora. E che sempre occorreva vigilare affinché quei trascorsi di vessazioni avvelenate contro le donne non si ripresentassero. Simone occupava sola il suo consueto tavolo del Flore intenta a scrivere. Violette aveva varcato tremante la porta di ingresso del locale da qualche minuto e la osservava a poca distanza. Con piccoli passi le si avvicinava trattenendo il respiro irregolare. Non riusciva a pensare cosa le avrebbe detto, come l’avrebbe convinta a leggere quel suo libro che parlava di una bambina brutta odiata dalla madre con parole intrise di colpa e rammarico. Era bella, Simone. Bella e fredda. Gli occhi chini sulla pagina che stava coprendo con la sua fine calligrafia, Simone pareva non accorgersi degli avventori seduti ai tavolini intorno a lei. Simone sembrava non aver bisogno di loro. Una donna che bastava a sé stessa. Una donna che conosceva a fondo la propria libertà. Una donna che si identificava con il suo stesso essere libera. E a un passo da Simone, mentre la sua mente si attorcigliava su queste intuizioni, due improvvise rivelazioni si infransero sullo spirito fragile di Violette: non sarò mai come Simone, non riuscirò mai più a vivere senza Madame. E tale fu per Violette fino alla fine dei suoi giorni, semplicemente Madame.

L’esordio di Violette avvenne nel 1946. Madame l’aveva trovato potente e le aveva dato suggerimenti su come renderlo migliore. E Violette aveva accolto ogni sillaba proveniente da quelle labbra come fosse miele sceso dagli altari di una dea. Una volta uscito, il libro di Violette le aveva conferito una vasta stima critica. Mancava il pubblico e con esso mancavano le entrate. E ancora una volta, il denaro veniva a costituire un problema. Violette si sforzava di pensare a una soluzione ma un ipotetico lavoro diurno, con la scrittura relegata alle ore governate dal buio, questa volta ancor più che in passato la lasciavano spossata nell’animo. La dea intervenne, le preghiere accorate di Violette vennero esaudite. Madame le avrebbe passato un mensile affinché Violette potesse scrivere completamente libera dai vincoli minacciosi del quotidiano. E così fu. Tutto l’amore non corrisposto per Madame si riversò in un secondo libro che scandiva la condizione di chi è affamato senza tregua d’amore fino a concepire la morte come unica via di fuga, come una nenia assordante. Davanti a quelle pagine dense offerte in sacrificio per lei, Madame reagì senza scomporsi. O così parve a Violette. Madame era conscia del sentimento che Violette provava nei suoi confronti. Ciò di cui non riusciva a capacitarsi era l’intensità ferina di quel sentimento. E benché nella sua giovinezza Madame avesse provato una tenerezza amorosa nei confronti di una amica speciale, mai quel trasporto aveva toccato simili vette di intensità. Tuttavia, ciò che più sconcertava Madame era la tempra che quel sentimento riversava come lava incandescente sulla scrittura di Violette. Una tempra che la scrittura autobiografica di Madame non possedeva. Madame era una mente senza confini che aveva abbandonato già da tempo il suo corpo. E con esso, aveva abbandonato quel mondo limitato per immaginarne altri possibili tramite la riflessione. Al contrario, Violette era un conflitto permanente tra corpo e spirito, non aveva bisogno di immaginare il futuro. Violette era il futuro. E all’apparire di questa realtà, il volto della dea si incrinò. Non agli occhi di Violette, ma a quelli della stessa Madame. Che non sarebbe più riuscita a guardare Violette come prima, ora che leggendola l’aveva vista realmente. Dopo aver fatto pubblicare il libro in cui Violette gridava il suo amore per lei, Madame si fece sempre più distante, impegnandosi in continui viaggi per conoscere quel che la circondava. Guardava fuori Madame, ritenendo che così si sarebbe vista dentro. Continuò a sostentare Violette, comunque. E quando un decennio più tardi grazie al suo libro più sfacciato, Violette ottenne anche un cospicuo successo di pubblico oltre al plauso della critica, i suoi problemi economici alla fine trovarono una soluzione. Logorata dal suo amore per Madame ormai ridotto a brandelli, si decise a dirle addio. Rinunciò agli aiuti che ancora la dea le passava, ora era in grado di fare da sola. Prossima a compiere i sessant’anni, Violette comprò un casolare a Faucon, un piccolo centro della Provenza. E lì si trasferì, voltando le spalle al passato. Visse immersa nella natura. Scrisse con regolarità. Accolse con giubilo i suoi sempre più numerosi lettori. Di rado riceveva una lettera da Madame. E con lo stesso distacco con cui la dea le continuava a scrivere, Violette le rispondeva. Poi, la malattia la obbligò a interrompere tutto, incluse le risposte alle lettere di Madame. E quando fu rinchiusa in quella stanza di ospedale per morire, con il terrore in agguato nel suo animo, pensò per un rapido istante di chiedere alla dea un altro miracolo, la guarigione. Quel pensiero però si scontrò con la realtà conquistata sul campo a dura forza da Violette: Madame non era una dea, non poteva guarirla. Soprattutto ora che Violette non era più preda del suo amore per lei. E così come aveva scritto anni prima, Violette morì perché in fondo era ormai stanca di stare al mondo.

Alex Marcolla

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