Tutti vogliono essere manager

Per te che vai, non esistono strade, solo scie di vento sul mare
Antonio Machado

Ogni uomo che si innamora cade, scivola, affonda, subisce il masochismo affermativo di un innamoramento avulso dalla morsa del narcisismo. Diventa femminizzato perché innamorato. Non più speculatore accorto, hipster reazionario affamato di credenziali ecologiche che gioca con il veganismo e la diversità rimanendo tuttavia truffatore in tutto e per tutto, confondendo il furto con l’audacia, lo stupro con la passione, una barbetta ben curata con la virilità, progettando infine un’astronave paranoica verso le stelle indifferenti.
L’uomo innamorato non viaggia più. Non va a caccia, ma aspetta. Aspetta l’amata. L’uomo che aspetta e soffre nell’attesa diventa miracolosamente femminilizzato. Aspettare è simile alla meditazione. In entrambi i casi non v’è garanzia che il desiderio verrà placato. A letter in your writing does not mean you are not dead.
Un uomo innamorato si vergogna se ha fortuna al gioco. Si chiede se ha imbrogliato. Un uomo innamorato invita una magnifica catastrofe – un termine greco la cui etimologia (ribaltamento) suggerisce un’affinità con la sovversione (rovesciamento). La catastrofe è rifugio dall’estenuante superficialità di alleanze, ambizioni, avanzamenti, ruoli e giochi di potere.
Alle sue origini, il movimento maschile, l’influente opera mitopoetica di Robert Bly, James Hillman, e Michael Meade, aveva al suo centro la catàbasi, il necessario processo di discesa, un viaggio nella terra delle ombre, un percorso “luttuoso” (il lutto del padre assente e quello del proprio disorientamento) che previene/cura l’insorgere d’una malinconia perpetua. La catàbasi non è alleata ad alcune delle nozioni prevalenti nella cultura odierna. Non è “resilienza”, il termine equivoco della Positive Psychology e applicato nell’esercito americano per “curare” i soldati dalla “difficoltà” di uccidere. Ha poco a che fare con la rigogliosa industria del trauma e la comprensione schematica della teoria dell’attaccamento. Ha poco a che fare con la politica del danno che classifica individui e comunità intere unicamente in base al trauma subito piuttosto che alla loro umanità e le loro aspirazioni.
Catàbasi è un termine ricco di significato: Socrate lo usava riferendosi ai suoi viaggi da Atene al porto di Pireo. Forse lo avrà usato in riferimento all’inginocchiarsi nel dare sesso orale ai giovani contagiati dal suo pericoloso amore per la saggezza, filo-sofia.
Catàbasi denota altresì: espressione in chiave minore, lontano dalle fanfare; il tramontare del sole; il calare del vento; una ritirata militare; innanzitutto, un viaggio negli inferi. Nei gruppi maschili degli Anni Novanta spesso voleva dire un viaggio nella terra del dolore, cibarsi di ceneri, patire sulla propria pelle i limiti irrimediabili d’essere un corpo mortale obbligato a esibirsi nella pantomima dell’ uomo vero. Il lavoro mitopoetico maschile ha ritradotto e condensato mitologie antiche – egizia, mesopotamica, greca, romana, giapponese – fondendole ad angosce contemporanee. All’epoca sembrò cruciale che tale processo delicato e spesso doloroso fosse vissuto in prima persona, con l’aiuto di un mentore o di un gruppo di uomini impegnati nello spazio rituale creativo, nella narrazione, nella condivisione della poesia e dei conflitti personali, piuttosto che mediato dalla saggezza degli altri, compresa la saggezza tenera e feroce delle donne.

Discendere: la catàbasi implica che il fallimento ha un suo valore – una posizione controintuitiva in un’epoca di sghignazzi in cui l’archetipo del “fallito” viene insultato in una cultura maniacalmente fissata con il successo ascensionale. La sconfitta ha il suo valore – si pensi al meraviglioso Satana di John Milton, a Eschilo che ci invita a maggiore empatia con i persiani sconfitti dagli ateniesi, o agli scritti del critico d’arte TJ Clark, un tempo socio dell’Internazionale Situazionista, per il quale uno degli errori della sinistra storica in politica consiste nell’accettare in modo acritico la retorica acquisitiva del successo.
La catàbasi implica abbracciare la dimensione tragica dell’esistenza, con il tragico inteso come la natura profondamente enigmatica dell’esistenza piuttosto che l’orrore. Implica l’apprezzamento dei percorsi non-lineari dei destini individuali e collettivi. È rimosso dall’attuale infantilizzazione dei bisogni umani presente nel linguaggio della politica e in quello della psicologia. Imparare la lezione della catàbasi potrebbe significare costruire forme di psicoterapia in chiave tragica invece che obbedire ai dettami della cosiddetta “salute mentale”. C’è di più: la catàbasi è una forma necessaria di auto-destituzione, una tecnica raffinata del sé, una pratica che, seguendo Michel Foucault, finisce per costituire il sé.

C’è un’enorme differenza tra il viaggio negli inferi allo scopo di disinfettarli e la discesa nel regno delle ombre allo scopo di imparare. Gli stimoli iniziali del “movimento” maschile avevano a che fare con la ricettività, l’umiltà, la perdita necessaria di modelli rigidi e un desiderio ingenuo di smantellare il patriarcato – ingenuo perché ignaro della natura omosociale dei gruppi. Il patriarcato, una struttura di disuguaglianza che privilegia i maschi rispetto alle donne e agli altri, è costituito da relazioni tra uomini con una base materiale che, sia pur gerarchica, determina una solidarietà fra uomini che consente loro di dominare le donne. Il tacito intento del legame maschile in una società patriarcale è il rafforzamento dell’eterosessismo attraverso la repressione del desiderio omoerotico e la creazione di una barriera artificiale fra la dimensione omosociale e quella omosessuale. Mentre il movimento maschile degli anni ’90 per lo meno permetteva l’emergenza di tali intuizioini, le versioni attuali le hanno invece calpestate concentrandosi invece su come controllare e gestire l’esperienza. “Tutti vogliono essere fascisti” diceva Felix Guattari negli anni Settanta. La versione aggiornata ma simile in essenza: tutti vogliono essere manager.

Manu Bazzano

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