Manuela che era sempre stata un po’ fuori posto

“La sua cifra stilistica si muove attorno al bisogno di un’arte esperienziale e performativa; la ricerca dell’artista viene espressa attraverso un’indagine multisensoriale dello spazio, con l’intervento attivo dello spettatore, che diviene spettatore per un coinvolgimento totale sul territorio. L’investigazione su corpo e corpo-luogo, l’abito-corpo, l’abito-ambiente…
Mi ascolti? Ti sta piacendo? Va bene quello che ho scritto?”
“Sì, ma non credo di voler partecipare a questa mostra…”
La ricerca maniacale del particolare, la rimanipolazione degli oggetti, l’esigenza dei work/actions in progress che continuano nel tempo ad accrescersi, i giochi di parole sono i temi che ricorrono in questa sua ricerca mai appagata, sempre in movimento. Un lavoro fatto di seduzione visiva, sensibilità…”
“Fermati, seduzione visiva?”
“Senti, io direi che dovresti lasciar fare a me.”
“Mi hai mandato la nuvola?”
“Perché cambi discorso? Manu, dobbiamo partecipare, il tuo lavoro è interessantissimo. Questa è un’ottima occasione.”

Mi sono ricordata per un attimo di quando ci siamo incontrate, io e Manuela. Un folletto ricoperto di fotografie. Ero alla biennale di Arte del Mediterraneo per riempire le pagine del quotidiano all’epoca appena nato. Adoravo questo andare in giro per i padiglioni e annotare stranezze, catalogare indizi, criticare installazioni, conoscere artisti.
Manuela mi scattò una polaroid, mi sorrise, vedevo solo la bocca, era interamente ricoperta di fotografie. Aspettammo che i contorni dell’istantanea fossero nitidi e me la diede, dicendomi “ora dovrai ricoprirmi”. Cercai una tasca vuota nel suo abito trasparente e la inserii, soffermandomi sulle espressioni e i volti degli altri ritratti. “Tutto qui? Mi scatti una foto, mi dici di ricoprirti e te ne vai così?”
Fui fortunata, alla fine della giornata mi fece vedere la sua faccia. Occhi rotondi e liquidi in una distesa di lentiggini malinconiche. Mi disse che con quella performance voleva ricoprire la sua pelle dello sguardo degli altri su di lei. Mi piacque subito.
“Ti ricordi di quando siamo andate a Roma? Al Macro, hai portato quella tua installazione sui finestrini del treno.”
“Attraversamenti, certo, chi si dimentica la simpatica descrizione…
Una parete trasparente che rappresenta uno stato d’animo nomade, un copione improvvisato. 4 tipologie di finestrini a disposizione dentro le tasche, a seconda dello stato d’animo: chiuso, con le tende, semiaperto e aperto. Si prende un finestrino disegnando-scrivendo il proprio attraversamento, completando i dati sul retro. Si ripone il finestrino nella tasca, a questo punto si torna mobili o si ricomincia.
Si torna mobili o si ricomincia… ora sai che finestrino sceglierei?”
Quando sono tornata da Roma ho trovato il mio computer vuoto, completamente svuotato dalle sue emozioni, tabula rasa dell’esperienza, anoressia della parola scritta, privazione di fogli, immagini e cartelle che intasano il mio desktop.
Una risata, dall’altra parte del telefono. “Sei curiosa quando parli, ecco perché sei curiosa in generale.”
“Sì, un computer che non sembrava mio, e sai l’unico elemento salvo qual era?”
“Sì, tesoro, forse è la dodicesima volta che me lo racconti.”
“Il tuo disegno del finestrino con gli alberi in movimento.”
Quando trovai il vuoto intorno a quegli alberi in movimento volevo solo piangere, urlare, gridare, prendermela con qualcuno. Però guardare quegli alberi in movimento da un finestrino del treno ha lasciato una sorta di traccia, di eco che ha attraversato i miei pensieri. E mentre ho faticosamente riscritto il mio lavoro sull’arte contemporanea il fruscio degli alberi in movimento mi ha bisbigliato a lungo suoni sibilanti, fluidi e piacevoli, a galla nelle mie orecchie, con mormorii striscianti lungo il finestrino.
“Mi ricordo che quando hai disegnato quegli alberi in movimento ti muovevi continuamente.”
“Ora sono ferma da tanto.”
“Manu, devi distrarti.”
“Mi ha lasciato perché mi muovevo tanto, non vorrai mica che ricominci con lo stesso errore?”
Se ti ha lasciato probabilmente non ti ha mai seguita, questo avrei voluto dirle. Puoi ricominciare, a piccoli passi. Stare lì ferma non ti aiuterà ad aspettarlo.
Lei è sempre stata un po’ alla deriva, sempre un po’ fuori posto, fuori tempo, fuori passo, sempre sull’orlo del corpo, tenendosi in equilibrio sulle sue performance artistiche, precisamente nel punto esatto in cui pensiero e azione potrebbero prendere tutte le forme possibili, tutti i mondi probabili. Probabilmente si fa fatica a seguire l’andatura del probabile. Gli uomini non sempre accettano la probabilità, preferiscono le certezze. I passi sicuri. Le direzioni giuste. Forse è stato questo.
“Hai sempre guardato le cose a modo tuo.”
“A mondo mio vorresti dire.”
Non poteva vedermi sorridere. “Senti, allora sai che puoi fare? Vorrei che da domani, no, anzi da oggi, tu prenda un block notes, un diario, quello che vuoi e scriva tutti i tuoi attraversamenti. Mi piacerebbe che descrivessi ciò che tocchi, che senti, che ti colpisce.”
“Ciò che mi manca?”
“Certo, anche ciò che ti manca. Non voglio proprio entrare nella tua intimità, ma entrerò comunque nel momento in cui attraversi uno stato d’animo per passare ad un altro.”
“Vuoi prendere i miei spazi?”
“Bè, la descrizione è una forma di impossessamento, obbliga allo sguardo, alla riflessione, e ti fa concentrare su quello che hai fuori di te, non dentro di te. Quindi io non ti chiedo delle cose stabili. Ti chiedo di annotare degli stati transitori.”
“Non so se riuscirò a scrivere. Mi manca Giulio.”
“Scrivere serve a trattenere qualcosa, a far sopravvivere qualcosa. Il mio scrittore preferito dice che scrivere serve a ‘strappare qualche briciola al vuoto che si scava’. Cerca di strappare qualche briciola ai tuoi vuoti.”
“Sai che sei la mia curatrice?”
“Sì, sai, è questo che voglio fare. Curare.”
“Sai, credo proprio che ci siamo incontrate per tanti motivi. Quando ti accennavo tempo fa che dovevo sistemare delle cose, forse è proprio quello che mi chiedi adesso, questo attraversamento, questo passaggio, questa frattura su cui stai indagando è lo stato in cui mi sento, come la muta che fanno i serpenti, sei sempre tu ma di fatto non lo sei più, ti svuoti completamente e forse sei pronto per raccogliere tutto quello che arriva con animo diverso.”
“Esatto, è questo lo spirito giusto. E poi voglio una rappresentazione frammentata della tua identità. Vorrei che tu fotografi degli oggetti, dei mobili, per esempio il letto, o un libro, o una tazzina di caffè che abbiano impressa la tua identità. Naturalmente senza te dentro.”
“Tu sei tutta strana.”
“Poi metteremo insieme ciò che è mobile, con ciò che invece è fermo.”
“L’idea è che io debba fare queste foto, scrutare la mia vita, quello che cambia e che non cambia, trovare la mia identità, ti rendi conto di quello che mi chiedi?”
“Certo, altrimenti non te l’avrei mai chiesto.”
“Ma io sto vivendo un’assenza.”
“La tua?”
“No, o forse sì, è la mia, perché Giulio è andato via. Ed era un po’ me.”
“Tu ci sei, e anche se non sei in forma in carne ed ossa devi esserci in pensieri e forme. Ti ritroverai.”
“Manu noi ci troviamo sempre nel bel mezzo di qualche assenza. Ci troviamo sempre a rimpiangere qualcosa, a non accettare le nostre vite, a volerne altre. Io mi trovo a transitare tra gli a capo delle frasi, in una condizione di equilibrio tra paragrafi e punteggiature, tra passi frettolosi di corse contro il tempo, di interviste, testimonianze e opinioni, improvvisazioni e documentazioni. E non sempre va tutto bene. E sai cosa penso? Dobbiamo scegliere di affrontare questo nomadismo da soli.”
“Sto soffrendo di quella che un fotografo chiama l’anestesia dello sguardo.”
“Devi invece cercare di soffrire l’anestesia della memoria.”
“Ora ti devo lasciare. Vado a raccogliere i miei pezzi.”
“Incollali per bene ok?”

Un’indagine intima e pubblica insieme che indugia su scorci e paesaggi cercandone l’essenza; un’esplorazione di geografie che dà vita ad una conversazione con la memoria e il ricordo di ciò che è stato o ciò che abbiamo sentito, e ci permette di alimentare quella patologia di cui soffriamo, che il fotografo Luigi Ghirri chiama “l’anestesia dello sguardo”.
La riscoperta dei luoghi visitati dall’artista attraverso le forme diaristiche dei suoi disegni, la compostezza privata delle sue analisi, la lucidità immobile dei suoi sguardi.
Manuela non disegna per descrivere, ma per superare la barriera che la divide da quanto guarda, per forare la superficie della realtà e mescolarsi con essa.  Il suo è un sentire-vedere che rivela situazioni emozionali senza mai raccontarle con esattezza: volti a metà tra delirio e luce, valigie che si immergono nel buio, treni che vengono fuori ostinati dalla strada, alberi al vento sfocati e indistinti, strade che si perdono nella notte, lacrime insistenti che rigano i finestrini, parole anestetizzate a colpi di invenzioni. Uno sguardo strumento del sentire. Uno sguardo che cerca di scavare in quell’oscurità in cui tutto sprofonda, l’ombra della notte al di là del finestrino. E sembra che tutto quello di cui Manuela ha bisogno, lo porti via con sé. Una valigia “è tutto lì dentro, quello che mi appartiene”, racconta, e a volte sembra di ritrovarcisi dentro questa valigia. Come ritrovarsi nella patina distratta di una polaroid; come sognare sul suono strozzato di un giradischi; come sforzarsi di percorrere lo spazio tra le righe; come stupirsi nel voler essere miopi e guardare il mondo con un occhio solo…

Quella sera Manuela mi mandò una e-mail per informarmi che aveva messo fine alla sua raccolta di pezzi. Forse indossavo un sorriso falso quando incominciai a leggere le prime righe e non ricordo di aver mai cambiato espressione. Ad un certo punto, dopo essersi complimentata per quello che avevo scritto su di lei, sembrava mi stesse scrivendo dolcemente, come quando ci si parla per l’ultima volta. “È finita, cara, hai cercato di curarmi, ma, davvero, è difficile prendersi cura di me. Non riesco neanche io a prendermi cura di me. Puoi smettere di pensare ai miei spostamenti ora. Rimarrò immobile per sempre.”
Allora quando può capitare di trovarsi esattamente nel momento di distacco, nel momento dello scatto della lancetta dell’orologio, in quei secondi in cui ci si trova in aria durante un tuffo prima di atterrare in acqua, quel momento esatto in cui assaggi un piatto per la prima volta, dovremmo attraversarlo liquidamente e caderci dentro a piedi pari. Perché se amici, libri, parole, studiosi, non hanno più la possibilità di costruire strutture stabili per rassicurarci, non lo farà certo il momento in cui ci fermiamo ad ascoltare il nostro pensiero. E cos’ha da dirci.
Quando sono andata a casa sua ho sfogliato il suo diario tante volte. Il diario su cui le avevo detto di annotare i suoi pensieri mobili e la sua identità immobile. Non so se capita in genere, ma a volte io penso che qualcuno scriva apposta per farsi leggere da me. Mi piace così tanto la costruzione delle forme a cui gli artisti danno vita che penso l’abbiano creato apposta per farmi emozionare.
Mi è capitato di nuovo.
In questi attraversamenti, in quello spazio alterato dove riaffiorano le ragioni del corpo a pretendere di essere viste ho trovato qualcosa di intimo, di conosciuto, di inafferrabilmente “mio” e ci sono caduta dentro. Inevitabilmente.
Manuela è semplicemente scomparsa senza lasciare traccia ma io ogni tanto ancora vago in questi spazi, aprendo e chiudendo dei finestrini a mio piacimento e guardando il suo mondo spietato in maniera indisciplinata.

Lara Carbonara

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