La disperata strafottenza di Maurice Sachs

La marcia forzata durava ormai da tre giorni. Da quando i soldati tedeschi avevano sgomberato il carcere in cui era rinchiuso, Maurice non aveva fatto altro che marciare senza sosta e tacere. Questa volta non la scampo, questa volta crepo qui in mezzo a questo dannato nulla. Non faceva che ripetere questa litania, Maurice. Il frullo dei suoi pensieri tornava come un ossesso sopra a un modo qualsiasi per scantonare ancora la morte. Non riuscivano però quei farfugliamenti caotici della mente a trovare una scappatoia alla sorte meschina che lo attendeva dietro l’angolo. Merde! Avrebbe voluto gridare. Che fine ridicola, continuava. E poi, non voglio morire. Non qui, non così. Dove sei, mamma! Nemmeno ora che sto per crepare mi vieni in soccorso! E tu, papà? Ti sei fatto di nebbia che avevo nemmeno sei anni. E nebbia sei rimasto per tutta la mia vita, parassita bastardo! Di colpo un ufficiale gridò lo stop, tutti si fermarono. Solo pochi minuti. Era già morto, Maurice. La stanchezza aveva avuto il sopravvento. Lo sapeva, non sarebbe più riuscito a riprendere il cammino. Anche quel mulinare persistente che gli faceva dolere la testa si era arrestato. Pochi semplici minuti per riappropriarsi di una intera fulminea esistenza. E alla fine, senza tirare alcuna somma, crollare sulle proprie ginocchia e lasciarsi sparare alla nuca. Ora sì che sto bene, questa corsa insensata è finita, quella vita che ho tentato di fregare sempre e con tutte le forze, ora mi ha finalmente lasciato in pace. E con lei anche gli altri, tutti. Ma com’era poi cominciata quella tratta a ostacoli? E in quei pochi istanti che lo separavano dall’ultima tappa, Maurice recuperò confuso le immagini dei suoi bruschi trascorsi…

Aveva diciassette anni da poco compiuti Maurice il giorno in cui mise piede a Londra per la prima volta. Era solo già da parecchi anni. Suo padre aveva mollato la famiglia in cerca di una nuova fonte di mantenimento, un’altra donna ricca che lo potesse far vivere nel lusso. A volte Maurice pensava che se il matrimonio avesse riguardato anche due uomini, suo padre non si sarebbe fatto scrupoli pur di farsi mantenere. Dopo essere stata abbandonata, sua madre aveva messo in scena uno spettacolo di afflizione a uso e consumo del suo ristretto pubblico di annoiati borghesi. E finite le repliche di quella messa in scena, si era buttata in un nuovo matrimonio, un nuovo amore da esibire ai soliti noti in quella estenuante tournée teatrale che era sempre stata la sua vita. E con l’impegno di una nuova messa in scena, la madre si era semplicemente dimenticata di avere un figlio. Attorno a Maurice vorticavano tutori di ogni genere, i libri non mancavano e la passione del ragazzo per la lettura non lasciava spazio alcuno alla solitudine. E c’era l’osservazione quotidiana che Maurice praticava in maniera accorta. Il prossimo gli risultava già del tutto inutile, leggere e osservare avrebbero affinato il suo talento di aggirare ogni ostacolo e di raggirare chiunque. Sarò degnissimo erede della marchesa de Merteuil e non avrò mai alcun bisogno di un essere misero e inconcludente come Valmont, ripeteva tra sé Maurice. Una tenace forma di egoismo e un insano bisogno di lusso bussarono presto alla porta della vita di Maurice e lui con un profondo inchino ben volentieri li accolse ritenendoli l’unico rimedio contro quella serie di mali che lo opprimevano: l’ansia di vivere in fretta qualunque esperienza, il terrore fottuto della noia e il bisogno inestirpabile del riscatto terreno attraverso la scrittura. Si annoiava a scuola, Maurice. E i suoi risultati erano pessimi. Era il ragazzo più intelligente dell’intero collegio in cui sua madre l’aveva ficcato per dimenticarselo appieno e senza remore, ma l’obbligo di studiare lo infastidiva, lo tediava. E così seduceva i suoi coetanei e se li portava a letto senza vergogna, consapevole già da un pezzo della sua natura e dei suoi appetiti smisurati. Anche questa sua identità fuori dalla norma gli sarebbe stata utile, l’avrebbe sfruttata senza alcuna pietà contro quelli che la ritenevano innaturale e pure contro quelli della sua stessa specie. Non guardava in faccia a nessuno, Maurice. Era solo e da un pezzo aveva imparato a cavarsela senza far conto su chiunque lo circondasse. Prima che la scuola in cui era stato mandato si stancasse di lui e lo buttasse fuori, Maurice decise che se ne sarebbe andato sperimentando un modo per far soldi in fretta e vedere un pezzetto di mondo. Durante una breve vacanza a casa dei nonni, cercò e si fece coinvolgere in una truffa condotta da loschi figuri dei bassifondi parigini ai danni di agiati borghesi. E i soldi arrivarono lesti, la sua parte più che sufficiente per andare oltremanica. Rientrò in collegio avendo già pianificato in tutta calma il viaggio, si sarebbe divertito moltissimo a sparire. E quando fu scoperto e denunciato, si divertì ancor più a rimediare una via di fuga alla svelta. Le letture erano servite, avevano allenato bene la sua mente. Osservare era stato utilissimo, aveva rafforzato anche l’intuito. La fuga rocambolesca dal convitto lo fece approdare a Londra appena in tempo. I soldi con sé, avrebbe atteso paziente che le acque si fossero calmate e si sarebbe immerso in ogni anfratto della vita londinese, avrebbe accolto ogni esperienza come un mistero svelato. E la completa libertà che assaporò in quei giorni lo avrebbe accompagnato fino al suo miserabile patibolo, in mezzo a un bosco con la sola compagnia di un gruppo di disperati come lui e la fredda canna di una pistola premuta sulla nuca. Ancora un attimo, mormorava quasi pregando, ancora un attimo per rivivere un pezzetto soltanto. E rise, perché si era divertito come un pazzo e se ne rendeva conto in quello schifoso ultimo momento.

Quando ancora la guerra sembrava soltanto una profezia di sventura, a Parigi il piacere di vivere filava liscio e le occasioni per affermarsi come artista non mancavano. Maurice sprizzava fascino. Maurice desiderava tutto. E tutto avrebbe ottenuto, ne era certo. Tra una festa e l’altra, dopo aver visitato un certo numero di letti giusti, Maurice entrò nei giri intellettuali che contavano. Jean Cocteau ne fu rapito immediatamente e lo volle come suo segretario, aprendogli le porte di ingresso principale nei salotti di grido. E con la sua doppia anima di moralista e di libertino sfrenato, Maurice mise le tende in quei circoli piegandoli a ogni suo volere. Di notte, nei rari momenti in cui quella vita di piaceri non lo sfiancava, scriveva come un ossesso pagine su pagine, le riempiva di tutto quel che vedeva, soprattutto annotava tutto quello che volevano tenergli nascosto. E a un certo punto, si scoprì interessato a raccontare anche di sé senza alcuna maschera e quell’uomo che non si era mai visto come un mostro si produsse nel più crudo e realistico autoritratto della storia delle lettere francesi. Forse Maurice lo sperava, forse lo sospettava, forse lo sapeva, il libro che concluse in quel periodo gli avrebbe dato una fama leggendaria. Ciò che non poteva sapere era che a quella popolarità avrebbe contribuito anche la sua fine truce. Era ancora lontana quella morte sempre evitata, mai presa in considerazione. Alle lunghe notti insonni trascorse tra camere da letto dove si vendeva per denaro agli amici di Cocteau o scriveva in maniera forsennata, seguivano giornate di intrallazzi di ogni genere nei quali ricettava oggetti rubati nelle case dei ricchi borghesi che intratteneva con le sue mascherate irriverenti o rivendeva manoscritti sfacciatamente contraffati attribuiti allo stesso Cocteau e ai suoi celebri amici letterati. Questi lo disprezzavano, Cocteau lo temeva. Non lo ritenevano un loro pari, non sospettavano l’immenso talento per la scrittura di Maurice. Soprattutto, non sospettavano che molti anni più tardi sarebbero stati raccontati per quel che erano in realtà in un libro incendiario che avrebbe reso immortale il suo autore. E che il suo autore non avrebbe visto pubblicato in vita.

Giunse la guerra e non fu una sorpresa. Gli anni ’30 ne avevano ripetutamente mostrate le avvisaglie a chi voleva coglierle. Maurice non si scompose, avrebbe continuato il medesimo andazzo. Poco prima che le truppe tedesche arrivassero a Parigi, a Maurice fu presentata una donna che si diceva fosse la protetta di Madame Simone, una delle due divinità dell’esistenzialismo allora in voga. Non era mai riuscito a entrare in quell’ambiente intellettuale, Maurice. Lo ritenevano troppo frivolo e spregiudicato. Troppo poco politico. Maurice pensò che Violette potesse fare al caso suo, lo avrebbe potuto presentare a Madame e poi chissà. In fondo, anche questi studiosi all’apparenza integerrimi potevano serbare crepe nella corazza di rigore che pareva su di loro essere una seconda pelle. Non aveva considerato Maurice che Violette potesse innamorarsi di lui. Era brutta, Violette. E le piacevano le donne. Tutti a Parigi sapevano dell’indifferenza di Madame verso i sentimenti di passione che Violette nutriva per lei. Poi Violette era lagnosa e Maurice non tollerava le persone che si lamentavano perennemente senza combinar nulla per riscattarsi. Poi le lamentale infinite lo annoiavano, non c’era tempo per la noia, soprattutto adesso che era scoppiata la guerra e i tedeschi erano alle porte, c’erano affari da immaginare e mettere in pratica alla svelta. Dopotutto, quanto sarebbe durata? Poco, Hitler li avrebbe messi sotto tutti in fretta i suoi avversari. Di questo Maurice ne era sicuro. Tuttavia, Violette era sola, come Maurice. E per un attimo lui pensò che avrebbe potuto provare compassione per lei. Si riebbe presto da quella tentazione. Violette è ciò che potrei essere io se non mi fossi tirato su senza aver bisogno degli altri, Violette è un cadavere che cammina in attesa che il primo che passi la seppellisca. Mai, mai mi farò risucchiare da un simile pericolo, continuava a rimuginare Maurice. E la portò con sé in Normandia, forse solo perché aveva bisogno di una mano per i suoi traffici, forse perché in fondo la sua indifferenza cominciava a sgretolarsi lasciando intravedere una disperazione senza più freni. Dopo mesi di mercato nero per cercare di sbarcare il lunario, Maurice era stanco di ogni cosa, inclusa la presenza di Violette. Decise di lasciarla, di andare a cercar fortuna in Germania anche a costo di incappare nelle bombe o nei rastrellamenti. Disse addio a Violette. Non si rividero più. E come dono, le lasciò quell’invito perentorio a smettere di lamentarsi e incominciare a scrivere tutto quel che della sua vita non le tornava.

Arrivato con mezzi di estrema fortuna ad Amburgo, Maurice si mise a fare l’operaio in uno dei tanti cantieri navali della città. Una vita come tante poteva essere il segreto dato per scontato della pace interiore? Per poco, lo fu. La noia però si ripresentò affamata come una bestia feroce digiuna da mesi e vinse Maurice. L’ebreo e omosessuale Maurice entrò a fare pare della Gestapo come informatore e spia, convinto che il suo talento antico per la dissimulazione e l’inganno lo avrebbero fatto vincere anche questa volta. Così non fu. E a un passo dalla fine della guerra si ritrovò a marciare verso il nulla insieme agli altri prigionieri del carcere dove aveva trascorso gli ultimi due anni. Una fuga forzata con le armi dei soldati tedeschi puntate addosso. Aveva vissuto più vite, Maurice. Poche tuttavia era riuscito a rievocarne nei pochi istanti di pausa di quel ripiegamento, la sua mente vacillava spezzata tra i ricordi evocati alla rinfusa e il tentativo ultimo di trovare anche questa volta un modo per scamparla. La gelida canna della pistola sulla sua nuca lo colse all’improvviso, il proiettile che lo trapassò parve imprigionare un sorriso appena abbozzato. La marcia riprese. E il suo corpo fu abbandonato lì in mezzo al nulla.

Alex Marcolla

2 pensieri riguardo “La disperata strafottenza di Maurice Sachs

    1. Grazie, Daniela! In effetti, quella di Sachs è stata una vita tormentata, che però ha dato origine a pagine letterarie uniche. Maurice Sachs merita di essere letto e riletto! grazie ancora,

      Alex Marcolla

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