Logocrazia. La fine di una lingua, la morte di un popolo

Nel settembre del 2005 mi trovavo in giro per Corte, nel cuore della Corsica. Notai una scritta su un muro fatta con spray nero che recitava più o meno così: Morta a lenga, mortu u populu. Sveglia!
Una delle firme dell’ FNLC, il Fronte Nazionale di Liberazione Corso. Non è inconsueto trovare fori di proiettile sui cartelli stradali nel deserto delle Agriate o presso i siti dei menhir del sud dell’isola, o sigle terroristiche fissate con la vernice indelebile in luoghi strategici di passaggio obbligato o ad alta intensità turistica.
Il monito era quello di mantenere vivo ciò che gli irridentisti consideravano ben più di un semplice dialetto per garantire la sopravvivenza della stessa popolazione, troppo vicina alla francofonia dei tiranni centrali che vivono e governano il cuore del Mediterraneo dalla remota Parigi.
Ero troppo inesperto, all’epoca, per cercare di dare forma filosofica al concetto di base che sottendeva quella scritta. Sarebbe bastato, invece, cercare sugli scaffali giusti della mia biblioteca personale, quelli dedicati alla cultura della letteratura distopica, che è diventata nel frattempo la mia passione letteraria unitamente a quella avventurosa, e dopo quasi vent’anni ho capito quanto quella scritta fosse importante, al di là delle finalità di rivendicazione. Osava, anzi, andare oltre gli intenti irridentistici.
La lettura dovrebbe essere sempre una risorsa imprescindibile per la crescita individuale in una società critica: l’ovvietà di questa mia affermazione stride tuttavia con la realtà, fatta di testi rimasti inascoltati come moderne Cassandre, come Giovanne d’Arco ritenute oggi troppo immature, che ci avevano messi in guardia sui pericoli della deriva della comunicazione e che puntualmente si è verificata fino a sancire quella che provocatoriamente voglio intendere come la morte del sé e la sua ridefinizione in chiave contemporanea.
Il più famoso autore distopico è senza dubbio George Orwell; uno che di assolutismi, tirannie, anarchia, massoneria ne sapeva eccome, avendo fatto parte di tutto questo universo utopistico che ha tradito nel medio tempo i propri stessi principi. Allievo di Aldous Huxley e del suo “Mondo nuovo”, in 1984 denunciava quanto la comunicazione avrebbe condizionato la vita quotidiana di ognuno di noi, in un processo cacotopico irreversibile e spietato. La “NeoLingua”, come viene erroneamente indicata dalle varie traduzioni, in realtà è un “NeoLinguaggio”, un “NeoParlare”, il “NewSpeak”. Periodicamente il potere centrale del Socialismo inglese post bellico (il SocIng) liofilizza il linguaggio affinché ne esca sempre più impoverito, e con esso si rafforzi l’opera del grande controllore (un “Grande fratello” che in realtà è un “Fratello maggiore”, il quale vanta un peso specifico superiore rispetto al “minore”). Parole nuove, neologismi che non si legano allo svluppo filologico di una società ma che si concentrano sulla contrazione della pronuncia come conseguente attenuazione del significato stesso di una parola. Meno “significante” uguale meno “significato”. Ecco che compare la “logocrazia”, il governo della parola, o, meglio, “con” la parola.
Fu Orwell a introdurre nel mondo occidentale Noi di Evgenij Zamjatin, romanzo futuristico, datato 1919-1921, censurato dallo stalinismo (lo stesso stalinismo che a sua volta aveva tradito Orwell fino a minacciarne la vita) e proposto in lingua inglese dopo un tacito compromesso legato alla sua distribuzione. Questo ovviamente non gli ha impedito di trovarsi sulla mia succitata mensola. Zamjatin azzera l’individualità come fa Orwell, che riconduce il singolo alla mera appartenenza di casta, in un rigurgito di Medioevo, e relega i deboli e gli emarginati nell’oblio del proletariato e le teste pensanti (esclusivamente nella direzione voluta dal Fratello Maggiore) nella catena produttiva intellettuale. L’io narrante di Zamjatin è una sigla: D-503, mentre altri personaggi sono I-330, O-09, questi i nomi delle persone dell’universo di Noi, delle mere matricole nate morte e che agiscono solo in funzione di altri numeri che si combinano fra loro come le catene algebriche di un algoritmo, il simbolo malato contemporaneo dell’intelligenza artificiale. Mentre in Orwell il protagonista è uno Smith, il cognome più diffuso in lingua anglosassone, un nostrano “Signor Rossi”, che fa parte del ceto medio, la ex borghesia produttiva che ha sostituito il colletto bianco con una tuta anonima da lavoro grigiobluastra. Uno, nessuno, centomila. La sostanza che non cambia una forma omologatrice.

La revisione linguistica è evidentemente una costante logocratica imprescindibile. Il potere della “parola” come strumento di governo e controllo, quale eutanasia del singolo pensante, schema di un ergastolo mentale della libera produzione di libero pensiero, esplode con Anthony Burgess, che crea dapprima Un’arancia a orologeria, che diventerà Meccanica dopo Kubrick, e quindi 1985, che di 1984 è al contempo critica e seguito. Alex de Large, il capodrugo delle spremute meccaniche, vive e delinque in un mondo che parla il Nadsat, un grammelot in salsa anglo-russa, figlio del libero arbitrio che conduce consapevolmente e volontariamente al male. Tuttavia A-Lex, il ragazzo senza legge, verrà resettato da un sistema giudiziario futuristico attraverso lo sperimentalismo scientifico che ha la presunzione di ammansire il cattivo e renderlo strumento passivo della violenza altrui. Logocrazia è la morte sociale di Alex, che una volta sbattuto in galera diviene 655321, una cifra terribilmente vicina alla logica anagrafica di Zamjatin. E in 1985 il protagonista, Bev, colui che si ribella alla dittatura delle corporazioni e dei sindacati, l’insegnante di Storia che decide di combattere un modello di cultura che non gli appartiene, si manifesta così quando viene chiamato col suo numero di matricola: “non sono un numero, sono un uomo!”. Salvo chiamarsi di cognome “Jones”, ovvero il secondo cognome più diffuso in lignua inglese, proprio dopo Smith. Smith, Jones, cognomi qualunque per gente qualunque, affratellata dall’unica sottomissione prevista dai canoni distopici del passato: il governo con la parola. Una curiosità: D-530, 655321, Smith e Jones sono tutti dissidenti, sono tutti cospiratori, vengono tutti isolati e coercizzati in modo forzoso, incarcerati, rieducati dal potere logocratico e alla fine reinseriti in società, con sorti differenti. La scolarizzazione forzata attraverso parole, incubi, immagini che fanno leva sulle singole fragilità, ovvero, quel briciolo di umano che resta nelle macerie disorganiche degli individui sociali.
La Storia con la “S” maiuscola è essa stessa cancellata, e con lei il suo modo di esporla, perché non è più magistra vitae, ma pericolosa disciplina che custodisce scomode verità da gettare nel limbo del dimenticatoio, senza pietà alcuna. “La storia si stava avvicinando pericolosamente al presente e il presente non poteva essere riassunto”, pensa Bev Jones.

Nella società contemporanea la comunicazione quotidiana è ignoranza, è analfabetismo di ritorno o funzionale; la democrazia che dà voce a tutti fa sì, paradossalmente, che tutti dicano quello che deve essere detto; perché? Ma perché è cambiata la lingua, si è fusa, si è impoverita, si è ridotta. È fatta di abbreviazioni, emoticon, nickname, fake, troll, ed è qui che la logocrazia profetizzata dai pionieri letterari ha trovato la sua piena realizzazione; per esempio, non siamo più quel che siamo, siamo quello che scriviamo e mostriamo di noi. Non siamo noi stessi, siamo i nostri avatar, siamo ologrammi di noi stessi, siamo insomma quello che altri vogliono che siamo. Ci hanno accompagnati in tutto questo. Siamo morti e non lo sappiamo, nonostante a scuola fin dalla terza elementare abbiamo scoperto che la storia si chiama così per distinguerla dalla preistoria proprio grazie all’invenzione della scrittura come strumento depositario della verità, dell’esperienza, della vita stessa. Abbiamo però capito che le parole possono essere reinventate alla bisogna, come qualsiasi codice binario; la lingua “Il”, quella pensata e teorizzata per i proletari inglesi, contrapposta alla “Ail” del Re e dei Fratelli Maggiori di 1985 riporta terribilmente alla memoria la dicotomia “Oil”/“Oc” che studiavamo a scuola quando intorno al 1100 il Latino dei colti moriva lentamente e si imbastardiva con il volgare di accesso libero. Erano momenti di profonda, epocale trasformazione, con una sostanziale differenza: “Oil”/“Oc” sono studiate nel presente e avvenute nel passato, “Il”/“Ail”, NadSat, NewSpeak sono immaginate nel passato verso il futuro. E sono divenuti entrambi dei fenomeni concreti, nostro malgrado.
Perché, alla fine, ammettiamolo: agonizza la lingua, agonizza il popolo. Muore la lingua, muore il popolo. E noi siamo sempre lì, in attesa di svegliarci.

Davide Barella

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