Dopotutto, ci sono tante consolazioni

Il bar della nave non era ancora pieno di turisti. A giugno incominciava l’alta stagione e di lì a qualche settimana ogni singola fila di sgabelli si sarebbe riempita. Un gruppo di ragazze spagnole stava facendo colazione in un angolo vicino alle grandi vetrate. Erano vestite in maniera troppo leggera e si erano rifugiate sotto coperta, non se la sentivano più di rimanere sul ponte con l’aria gelida che sfidava le guance dei passeggeri. Facevano un gran chiasso, ridevano, mangiavano cornetti, bevevano caffè, sembravano felici. Più in fondo, lontano dal bancone una coppia di turisti dai capelli bianco-oro, sembravano lettoni. Sorseggiavano in silenzio la loro bevanda di latte caldo guardando fuori dalle vetrate. Acqua e terra nei loro occhi. E rimanevano in silenzio a parlarsi. Le dita burrose che stringevano la tazza, di lei, i rotoli della pancia che si vedevano attraverso la camicia troppo stretta, di lui. Le gambe incrociate davanti e gli occhi persi verso una lontananza da condividere. Il cielo color cenere e solo il rumore dell’umanità intorno a riempirlo.
Ana se ne stava dietro il bancone del bar ad aspettare le ordinazioni asciugando le tazze e i piattini sterilizzati e sistemandoli al proprio posto, di fronte a un enorme specchio che quel giorno le restituiva un’immagine di una solitudine insostenibile.
“Vorrei un caffè” un ragazzo si avvicina, ha la faccia stanca come un tovagliolo usato.
“Non è che per caso hai una sigaretta? Io ho perso tabacco, filtri e cartine. Anche se vorrei smettere di fumare non mi sembra giusto smettere solo perché perdo il tabacco. Vorrei smettere mettendolo solo da parte. Cioè guardandolo in un posto che decido io e pensando ‘non ti voglio perché ho deciso di smettere’ capisci quello che intendo?”
Il ragazzo la guardò aggiustarsi la frangetta troppo lunga. I capelli erano legati ma gli sembrarono spenti e disordinati. Le allungò una sigaretta.
“Sai, io perdo sempre tutto. Una volta ho perso una bottiglia di vino che avevo portato come invitata a casa di una mia amica per una cena. Non so come sia potuto succedere, l’ho sistemata sul sedile della mia panda e poi bo, sparita. Tu hai mai perso niente?”
“Sì e adesso mi starei perdendo anche il panorama dal traghetto, grazie, per quel caffè…”
La ragazza lo fissò, si infilò una mano nella tasca della divisa e tirò fuori una caramella, la scartò e la infilò in bocca. Sembrava non stesse affatto pensando al caffè.
Ana non seppe dire perché, ma gli occhi di quel ragazzo le ricordavano la sensazione di gelo quando si bagnava nelle acque di Cascais. Con quelle scogliere drammatiche e maestose. La forza dell’acqua e la fragilità della roccia, immobilizzati in superbi strapiombi liberatori. Adorava Lisbona, la sua indolenza solenne, la sua luce senza fretta che scandisce a perdita d’occhio la quotidianità di corpi in movimento ed elementi naturali. Lisbona era per lei una memoria fragile e viscerale che regala solitudine, malinconia, abbandono e li mescola in una dimensione dai contorni sfocati. A Lisbona l’obbligo di appartenenza si sporca, si confonde, si rovescia; l’oceano la rende più vulnerabile, quando si cammina nelle sue strade si entra in una dimensione di sospensione che ti fa attraversare lunghissime strade senza rendertene conto e puoi ritrovarti in qualsiasi punto della città senza accorgertene.  Lisbona è esattamente cosi, Ana pensava alla sua città, perde l’urgenza dell’immediatezza e diventa riparo di emozioni eterne e immobili.
“So a cosa stai pensando. Pensi che sia invadente, che dovrei preparare dei caffè o imbustare panini invece di mettermi a parlare. Ci pensi a quante persone diverse vedo al giorno? Vedo donne belle ma consumate, donne giovani che si truccano troppo, uomini eleganti o ragazzi in maniche corte con questo freddo. Maniche corte? Puoi immaginarlo? Io non mi abituo mai al freddo della Norvegia. Bambini che corrono tra le sedie panoramiche e che urlano, o si spingono o saltano da un corridoio all’altro. Dovrei dire loro di stare fermi? Dovrei fare anche quello? Ci sono persone che ordinano senza neanche guardarmi. Si aspettano che sia veloce, che capisca tutti i loro accenti, che ciò che mangiano sia buono e caldo, mentre guardano le sette sorelle piangere. Tu hai la faccia di chi non ha nessuna fretta di ritornare. C’è qualcuno da cui devi tornare ma non ti aspetta ancora”.
Il ragazzo la fissò e si limitò a stringersi nelle spalle. Guardò poi oltre i vetri lo spettacolo che stava perdendo sul ponte. Si tolse il cappello e si decise a domandare qualcosa alla barista che si era girata a preparargli il caffè.
“Ti piace il caffè americano?”
“Avevo un ragazzo americano e non mi sono mai abituata. Ci siamo lasciati quando mio figlio è morto tra le gambe appena l’ho partorito”.
Si ricordò di quando l’aveva conosciuto, alla Chiesa do Carmo. Camminavano entrambi nello scheletro di quella chiesa per metà rimasta in piedi dopo un terremoto. Camminare tra le rovine sembrava affascinarli entrambi. Lui era in vacanza, solo. Lei adorava quella chiesa. Ciò che era rimasto in piedi, quello che gli altri consideravano rovine lei lo consideravo resistenza. Con quegli archi di pietra stagliati verso l’alto sembrava una cassa toracica di una balena e si sentiva così a suo agio che amava chiamarla casa toracica.  Adorava quel quartiere di Lisbona, se respirava profondamente, le sembrava di sentire il profumo dei garofani rossi.  Incominciarono ad inseguirsi tra le pietre bianche e a promettersi una vita con gli occhi, era un angelo e come nella poesia di Pessoa era un angelo che era venuto a cercarla e a portarla via. La amava  perché l’amore ama solo cose imperfette. E la sua imperfezione era come quegli archi che non reggevano nulla ma pretendevano di arrivare altrove, lontano. Camminarono a lungo per le strade romantiche della città, scesero verso la rua do Arsenal, lui fotografando lei guardando fisso l’obbiettivo. Si persero nelle stradine, si fermavano, le loro promesse odoravano di eterno. La lunghissima Rua das flores, un ballo sotto gli ombrelli del ristorante Rio Grande, Una pasteleria, un cabellereiro, la caffetteria A Brasileira, tutti i negozi a largo Do Chiado, fotografarono tutti i murales in Calcada da Gloria, gli azulejos inglobati nell’intonaco, l’immagine del Fado all’angolo dell’Escandinhas de S.Cristóvão, gli occhi che ti scrutano andando verso il miraduoro da Gracia, fermarsi a leggere i versi di Florbela Espanca sui muri. O esplendor, É ter cá dentro um astro que flameja, É ter garras e asas de condor ….E é amar-te, assim, perdidamente…lo splendore di una stella che brilla, di lei, con artigli e ali di condor, di lui, che si amano così perdutamente, senza speranza… Arrivarono senza fiato fino al molo das Colunas. Lui la fotografò di spalle, al centro tra le due colonne con i piedi bagnati, una negoziazione con l’orizzonte. É condensar o mundo num só grito!, un unico grido, Portami via con te, gli disse fissandolo. Si perse nei suoi occhi nerissimi. Lui lo voleva, la portò via con sé, ad abitare in una zona troppo asfalto e cemento, nei vicoli troppo stretti e chiassosi di un quartiere di Kansas City; troppe catene per le sue ali vagabonde. Forse per questo il suo bambino nacque mentre stava soffocando.
“Come?”
“.. E lui prima sfilò via la maglia, si dipinse la faccia, si sciolse i capelli nerissimi, a torso nudo lo prese in braccio e scappò via. Portò via il nostro piccolo in braccio. Forse neanche riuscivano a vederlo, alcuni, mentre portava a spasso il nostro amore. Avrebbe trovato un posto dove piantarlo. Chiodi. Plastica. Luci. Cartelli alienanti. Ferro. Carta. Lavori in corso. Sorrisi forzati. Un abito da sposa è disteso da solo su un letto arido. Aspetta che qualcuno lo abiti, in bilico tra l’aria e l’asfalto. Catene. Rottami. Sembra una deriva di intenzioni logore e di occasioni perdute. Aspettava di scendere al prossimo giro di giostra; seguiva i binari del treno. Opprimente ansia, distratta da aria satura di grigio. Sai qual è la forza degli alberi? Loro rompono l’asfalto e forano i soffitti. Ma in città non respirano. Si difendono con le ferite aperte come testimoni dell’abbandono. Sam le diceva sempre che la città non era il posto per nostro figlio, intrisa di voci sconosciute, detriti abbandonati, e cemento incolto.  Guardati intorno. Diceva, Riesci a trovare altre scelte?
Lui aveva origini native, portava con sé il richiamo della terra, delle praterie sconfinate del Nebraska, non si era mai abituato alla freddezza della città. Nonostante tutti gli avessero consigliato di trasferirsi, di cercare un futuro nella civiltà Sam era dovuto scendere a compromessi con la memoria per portare sempre con sé l’atemporalità giallo ocra delle Sandhills, lenta, masticata, un cammino che si estende tra silenzi penetrabili del Pine Ridge e il groviglio di prospettive del Wildcat hills. L’azzurro, le nuvole, e quel lampo di incertezza dove il sole scompare, dietro i profili rocciosi.
Ogni tanto Sam aveva bisogno di procurarsi dei tagli, e Ana lo trovava sul pavimento della cucina mentre guardava il sangue abbandonare il corpo. Il dolore lo risvegliava, scuoteva il suo corpo intorpidito e pulsava di vivo. La sua pelle era un tempio, la apriva ogni tanto per metterci foglie, fango, erba. Cercava uno spiraglio di natura dovunque andasse, per questo aveva scelto di essere un artista, un fotografo, per poter andare via, ogni tanto. Non ha mai smesso di perdersi nei boschi. Quando incontrò Ana sembrava aver ritrovato un po’ di sollievo, ma dopo qualche mese di vita insieme ricominciò a partire per tornare terra, cenere, polvere, ad essere reclamato dalle viscere. Ana lo capiva, anche lei incominciava a sentirsi stretta in quel quartiere ma avevano rimandato tante volte la decisione di provare a vivere in un altro luogo.  
Io ho visto i passi finti di chi non assapora il volo, diceva lui, E tante luci, asfissianti ed ingannevoli. Le luci che ingoiano la notte. L’odore dell’ignoto mi destabilizza, il respiro dell’ordinarietà mi nausea.
Avrebbe voluto far tornare nostro figlio alla terra. Da solo. Non si sarebbe fermato finché non avrebbe trovato un posto dove piantarlo. Quindi è andato dove c’è aria pura. Finalmente l’aria pura delle sue sconfinate praterie forse. Tutto quel verde, tutta quella solitudine rigenerante. Tutti quegli alberi vivi. Riesco a vederlo ogni volta che chiudo gli occhi. Lascia scivolare via la camicia e incomincia a scavare nel terreno con quelle sue mani imploranti. Avrà trovato il punto esatto in cui la mia ferita viene ricucita. Non l’ho più visto.
Gli occhi vitrei, ferrei, senza neanche un’ombra di malinconia.
“Quindi sono partita anche io alla ricerca di mio figlio. Tengo insieme i pezzi del viaggio piuttosto che lasciarli cadere. Come fanno i bambini quando scoprono di saper volare. Dopotutto come dice Pessoa, ci sono tante consolazioni. C’è l’alto cielo in cui fluttuano sempre nuvole imperfette”.
Il ragazzo ebbe un brivido lungo la schiena e decise che era arrivato il momento di andar via. Eppure avrebbe voluto chiedere qualcosa. Ma si limitò a sorridere con una piccola smorfia.
“E il mio caffè?”

Lara Carbonara

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