Elizabeth Taylor, la scrittrice che visse e morì al secondo posto

Quando Elizabeth aveva incontrato John per la prima volta, non aveva realizzato che sposandolo e acquisendo il suo cognome avrebbe dato origine a un bizzarro incidente del destino. Da giorni giaceva spossata nel letto della camera che divideva con John da quattro lunghi decenni e osservando la campagna inglese dalla sua finestra, ancora non le pareva possibile che di lì a breve avrebbe dovuto dire addio a ogni cosa. Soprattutto, avrebbe lasciato John da solo. Il male che l’anno prima l’aveva aggredita senza darle un solo istante di tregua, ora aveva avuto il sopravvento e qualsiasi ulteriore tentativo di cura sarebbe stato inutile. Non le restava che attendere, tentando di guardare a quell’ultimo passo senza il timore che afferra chiunque davanti al mistero della morte. Aveva ancora un libro da portare a termine e malgrado una stanchezza mai provata prima di quel momento, l’idea di scrivere la aiutava a guardare a ogni giornata come se nulla di grave le stesse in realtà accadendo. E così ritornò al cognome di John, quello che lei aveva adottato il giorno in cui lo aveva sposato e che le aveva regalato allora senza saperlo una curiosa omonimia con quella che sarebbe stata ribattezzata la diva dagli occhi viola. Sorrideva tra sé, Elizabeth. Erano gli anni ‘30 quando conobbe John, la sua omonima a quel tempo era una sconosciuta bambina inglese. Elizabeth non poteva immaginare che pochi anni più tardi una splendida ragazza con il suo stesso nome e cognome sarebbe diventata una leggenda. E di lei, cosa si sarebbe detto della donna ancora giovane che lentamente stava morendo nella stanza di quel cottage? Elizabeth era una scrittrice. A detta di molti una scrittrice di immenso talento, capace di raccontare quello che da sempre era il cruccio degli artisti inglesi di ogni epoca: le infinite increspature dell’animo umano prigioniero della rigida divisione in classi di quel paese. Elizabeth serbava per la sua terra sentimenti contrastanti. L’amore per una dimessa semplicità e per quel decoro che se ben indossato garantiva sentimenti inattaccabili di stima. L’insofferenza per chi di quel decoro faceva una gabbia che poi imponeva a tutti, soffocando gli animi più vivi con regole disumane volte solo a mantenere l’ordine che garantiva i privilegi di pochissimi. Eccola, sobbalzava Elizabeth, eccola la ragazzina che aveva abbracciato il comunismo! E rideva con discrezione al pensiero di lei giovanissima che manifestava quelle simpatie politiche scatenando il panico nella compassata media borghesia della provincia in cui era nata e cresciuta. Il padre di Elizabeth si occupava di assicurazioni e stravedeva per quella figlia precocissima del cui futuro fantasticava spesso nelle parecchie giornate trascorse lontano da casa per lavoro. Elizabeth passava le ore leggendo accanto alla madre e godeva del calore di quel focolare umile e accogliente. Fu in quei primi tempi felici che Elizabeth sviluppò una attitudine non inconsueta tra gli autori che amava leggere, l’osservazione attenta per il minimo dettaglio quotidiano in grado di condurre all’individuazione della più piccola crepa in una realtà in apparenza quieta e banale. E questa sua inclinazione affinata col tempo le rese dapprima insopportabile quel classismo antico su cui si reggeva la società del suo paese. Fu uno di quegli insopprimibili moti giovanili di insofferenza che la condusse a sostenere apertamente il movimento comunista inglese. E se una simile adesione poteva essere rara ma vagamente giustificabile per un uomo inglese dell’epoca, il fatto che fosse una donna a esprimere simili appassionate simpatie in pubblico, fu un autentico scandalo. Papà Oliver approvava, ammirando lo sconfinato coraggio della figlia. Mamma Elsie la sosteneva, condividendo la passione di Elizabeth per la libertà. In prima istanza, per la libertà delle donne, una libertà negata fin troppo a lungo. Conclusi gli studi universitari, Elizabeth non ebbe difficoltà a trovare un lavoro. Fu insegnante prima, bibliotecaria in seguito. E giunta a maturare una coscienza fuori del comune per la sua giovane età, si trovò dinanzi a due svolte decisive. Comprese prima di tanti altri che il comunismo era irrealizzabile non solo nella società inglese, ma in qualunque altra società. Capì che quella sacrosanta aspirazione all’uguaglianza in mano alle persone sbagliate poteva trasformarsi da sogno auspicabile a incubo senza compassione alcuna. Questo accadeva già in Europa e nel mondo, questo era sempre accaduto e riguardava la cultura umana in genere. Elizabeth pensava alle religioni, che in cattive mani ridotte a ideologie vuote si erano tradotte in strumenti di offesa del tutto distanti dalle ispirazioni originarie. Tuttavia, Elizabeth aveva bisogno di credere che una società più giusta fosse possibile. Appoggiò quindi i laburisti, convinta che riforme sociali introdotte per gradi sarebbero state di maggior aiuto rispetto a una rivoluzione dagli esiti imprevisti. Infine, comprese che il suo futuro sarebbe stato impregnato dalla scrittura e che il romanzo sarebbe stato per lei lo strumento più adatto per indagare ogni contraddizione, quella che scaturiva insensata dall’animo umano, quella che feriva senza tregua perché imposta dal quotidiano vivere sociale. Quando Elizabeth incontrò John, i passi che avrebbe intrapreso per il suo futuro le erano ben chiari. E dopo aver intuito che quel ragazzo timido, erede di una piccola impresa dolciaria, mai avrebbe limitato i suoi progetti, Elizabeth accettò la sua proposta di matrimonio e i due scelsero un minuscolo cottage che sarebbe stato il loro confortevole nido per gli anni a venire. Da quel luogo appartato in cui regnava la pace, Elizabeth osservava non vista il mondo attorno a lei. E da questa sua quotidiana occupazione, scaturivano pagine che si trasformavano in romanzi singolari capaci di raccontare l’esistenza e le sue trappole da prospettiva affatto scontate. Elizabeth disponeva di autentiche attestazioni di stima da parte dei colleghi scrittori, anche di quelli che appartenevano alle generazioni precedenti la sua. E godeva del seguito di fedeli lettori che dalle sue storie amarissime e ilari traevano nuovi e inaspettati modi di venire a capo col proprio tempo. Questo passava sempre più rapido, trasformazioni improvvise si susseguivano alla svelta e conquiste in precedenza impensabili si scontravano con tentativi sempre più ostili di mantenere un ormai improbabile status quo. E poi c’erano quelle banalissime espressioni del male quotidiano che rendevano Elizabeth più insofferente che in passato, soprattutto perché appartenevano alla sua stessa classe sociale. Quella media borghesia che scimmiottando le classi agiate diventava loro complice nel mantenere ogni stortura intatta, allontanando ogni sofferta conquista dalla meta tanto agognata. Fu in uno di quei momenti di stizza che Elizabeth creò il personaggio di Flora, una tipica manifestazione di ingenuo affiatamento con chi tiene ben stretto il coltello dalla parte del manico. E con Flora, nacque il più feroce romanzo di Elizabeth. Un libro capace di scatenare i timori più nascosti per mezzo di una crudele beffarda risata. Flora è la ragazza della media borghesia che fa della sua innocenza uno strumento di controllo implacabile. Bellissima e innocua in superficie, incredibilmente avulsa da ogni contatto con la realtà e incapace di distinguere tra empatia e affettazione, Flora detta legge come una bimba viziata su un regno in cui tutti sono sottoposti a una capricciosa etichetta che toglie ogni possibilità di respiro. Schiavi di questo incantesimo oscuro, i suoi numerosi sudditi sembrano incapaci di obiettare alcunché, timorosi che rompere quella bizzarra stregoneria possa uccidere la loro inflessibile sovrana. E così si susseguono gli appuntamenti mondani e le umiliazioni costanti mascherate da brillanti giochi di società. Fino a quando un personaggio imprevisto non rompe l’incanto, imponendo agli altri di smettere con la menzogna rituale. Flora, il relitto di una classe sociale che teme i cambiamenti sarà archiviato con divertita crudezza da Liz, la pittrice emancipata che esprime l’irrompere della modernità in un contesto angusto e ormai andato a male. Quanto si era divertita Elizabeth a scrivere quel libro, quanta popolarità le aveva portato quel romanzo cupo e divertente. Chissà cosa avrebbero scritto di lei dopo la sua morte, chissà cosa sarebbe rimasto del suo lavoro. E John? Lasciarlo solo la faceva soffrire, lui che non l’aveva mai lasciata sola in tutti quegli anni. Lui che l’aveva seguita con giubilo in ogni suo nuovo passo. Lui che ancora le stava accanto, attendendo in un malcelato silenzio il momento ormai vicino in cui si sarebbero detti addio per sempre. Riprese il manoscritto del suo ultimo libro, osservò in calce il suo nome e cognome. E rise di gusto pensando al giorno in cui i necrologi avrebbero annunciato la sua dipartita: morta Elizabeth Taylor. Sogghignò alla possibile reazione dei lettori, per un attimo pensò a cosa avrebbe potuto dire anche la sua ben più celebre omonima. Poi ritornò al suo lavoro, c’era ancora un libro da portare a termine.

Alex Marcolla

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