Il tribunale della letteratura. Il luogo dell’utopia

Esiste un tribunale i cui atti sono noti e strutturati, ma poco frequentati; le cui deliberazioni talmente ghiotte da poter essere il pane quotidiano di cui ogni scrittore e tutti i lettori dovrebbero nutrirsi. Parlo del tribunale della letteratura. Non esiste nella società umana intesa nella sua accezione più ampia, transnazionale e transculturale, una esposizione e presa di coscienza più lucida e precisa dell’idea di giustizia e di quella di diritto di quanto accada in letteratura.
La sensibilità di Victor Hugo che descrive l’ultimo giorno di un condannato a morte, Emile Zola che si cala tra i minatori o lancia il suo j’accuse, la luce di Verga sui pescatori di Trezza, e Castelli, Tolstoj, Checov, Alfieri, Pasolini, Sciascia, Consolo… Un elenco infinito o meglio uno scranno su cui molti scrittori siedono non a sentenziare, ma a sporcarsi le mani d’Avorio con le vicende del mondo. La natura e la storia non sono che pagine di un medesimo libro i cui fogli sparpagliati coscienziosamente da un potere imbelle e incapace di una qualsivoglia etica, l’arte si preoccupa di riunire, leggere, riordinare.
Siamo sciolti dalla responsabilità dell’essere al mondo. Siamo sciolti dalla coscienza di essere vivi della vita che fluisce nel cosmo. Siamo fuscelli al vento di tramontana, così fragili dall’essere privati, oggi, della dignità; non umana, che comincio a credere che la nostra specie ben poco conservi di degno, ma creaturale. In uno spazio temporale breve di determinazione individuale e di coscienza, siamo trascinati in una fiumara ripida e scoscesa, precipitiamo come personaggi pirandelliani che non si pongono più domande sul senso dell’esistenza. Non sentiamo più. Letteralmente. Le nostre orecchie sono imbastardite dal chiasso urbano, non conosciamo musica, né silenzio. Siamo diventati insensibili al verso di un gabbiano, le rondini vanno e vengono senza che ce ne accorgiamo. Crediamo di nutrirci di cultura quando non siamo che giare vuote in cui non viene più versato olio, ma letame. Elemento nobile, ricordiamolo. Non siamo scelti né scegliamo, paghiamo per nutrirci dei prodotti del potere, per pubblicizzare merci e brand, siano essi libri o t-shirt.
Respiriamo aria fetida, ci ammaliamo e ci curiamo senza aver più coscienza o sentore di un corpo che si trascina per qualche decina d’anni appena e ci abbandona. Le magnifiche sorti e progressive! Non un’età dell’oro rimpiangeva Leopardi, ma una sensibilità perduta. Rimpiangeva il legame dell’uomo col cosmo, e, quindi, dell’uomo con l’uomo. L’utopia dei mortali stretti in social catena è tale solo fuori dallo stato di natura, in cui la lotta per la sopravvivenza è prioritaria. L’utopia è un portato delle magnifiche sorti e progressive, del patto sociale, dello stato di diritto. Il punto è che essa resterà tale, un non luogo, una meta cui tendere senza che sia data possibilità di raggiungerla finché non ci riscopriremo esseri senzienti, coscienti e naturali.  Solo allora l’uomo non calerà sconfitto il capo a colei che fu madre in parto ed in voler matrigna, solo allora lo solleverà ardito come la generosa ginestra, solo allora riconoscerà l’altro come stretto a sé in un medesimo destino.
Intricata come la trama di un tappeto orientale è oggi la situazione sociale e culturale, al punto che facile è perdersi nell’abbaglio che sia la storia la chiave per uscire dal garbuglio di una vicenda recente, appena millenaria, che si ripete. Ma il tempo, il tempo, questo tiranno solidale, che come lo spazio infinito ci aiuta a relativizzare, insegna che solo l’organizzazione politica e sociale che nasce dal mito, dalla necessità umana di creare storie, immaginare, per giustificare il mistero, ha prodotto masse di schiavi che nutrono un potere iniquo, cinico, autoreferenziale.
Le festività religiose di questi giorni, sappiamo, sono riti antichissimi cosiddetti pagani dal cristianesimo che li assorbì e se ne riappropriò. Non serve essere antropologi per leggere il grandangolare della storia. Basta la letteratura. Bastano autori come Saramago.
Il potere, il potere, qualunque forma assuma, che sia quello messianico o mistico esoterico, è un abominio diabolico da arginare. La coscienza di essere maggioranza potrebbe sgretolare ogni omologazione, massificazione, manipolazione. Non attraverso rivoluzioni frutto di portati ideologici, ma mediante una ordinata e organizzata disobbedienza. Riusciremmo a smettere di acquistare compulsivamente? Riusciremmo a dismettere le nostre auto o i nostri smartphone per qualche giorno?
Lavoriamo come schiavi per alimentare economicamente il potere più tiranno e subdolo che memoria storica abbia mai registrato. Che fare? Avere coscienza di essere maggioranza ma non gregge, stringerci gli uni agli altri in un patto solidale e, soprattutto, non smettere di essere vivi, liberi, responsabili e degni della vita.

Glenda Dollo

Rispondi