Ricordi come il primo giorno

“Gli occhiali, dove sono gli occhiali? Come faccio senza i miei occhiali”.
“Per favore torniamo, il mare si è ingrossato, pioverà, rientriamo dai”.
“Ho bisogno dei miei occhiali, io devo sistemare i miei appunti, non vado da nessuna parte senza i miei occhiali”.
Da nessuna parte. Ecco dove andiamo da nessuna parte.
Mi rassegno, siedo sulla sabbia che mi accoglie dura mentre sbuffo, mi tuffo nel ristoro di una mano sulla faccia, per un attimo di blackout. Non voglio pensare. Non andiamo da nessuna parte. Stiamo qui. E lei è lì davanti a me, bella com’è. Come se nulla l’avesse scalfita, fuori poco o nulla l’ha cambiata nonostante la tempesta.
Quarant’anni, una bimba di cinque, io che soffio la quarantottesima candelina come fosse la centesima, che nell’ultimo anno il tempo è diventato uno spazio largo, infinito. Sono passati vent’anni da quando abbiamo varcato convinti la porta di quella chiesa enorme, semivuota. Penso a quel giorno, alla febbre che avevo addosso e pensavo che dovesse essere quello che mi faceva tremare, poi l’ho vista, e ho tremato di più e ho capito che non era per la febbre, non avevo mai visto una cosa perfetta come il suo passo, il movimento del suo vestito, il braccio di suo padre incastrato emozionato nel suo. Mai visto o forse solo in qualche film. Congelo quel momento in un cassetto della memoria, prima che mi assalga la paura di vederlo svanire, la paura più forte che si sia mai insinuata nella mia, nella nostra vita. Lei, la ragazza che studiava mangiandosi penne e pagine di appunti, sognava un sacco di cose, come negli ultimi esami che ci tenevano svegli pensando al futuro, ai progetti impossibili, lo studio di architettura, il viaggio in Messico, il baretto su una spiaggia a metà tra la terra e il paradiso, lei era il motore che faceva funzionare ogni cosa. Ogni pensiero folle detto da lei, con i suoi occhi trasparenti e decisi, ogni cosa che le attraversava la bocca sembrava possibile. E forse lo era stato, un tempo era stato tutto possibile. Il piccolo studio in cui ci dividevamo lo spazio, le cose messe insieme un passo dopo l’altro. Il primo Natale dei primi mesi di mutuo con l’albero spoglio e un piatto di tortellini da dividersi. Le giornate che volavano, il lavoro che piano si avviava, le notti in cui non esistevamo che noi. Il divano dal colore terribile scelto tra mille tutti uguali, quello dove “facciamo che sia femmina ok?”
E fu una femmina, la più bella di tutte. Con gli occhi trasparenti come i suoi, i miei capelli ingestibili, il suo naso a patata, il mio sorriso. Il viso tondo, come un’albicocca, sempre felice, un uragano che ingarbuglia le carte, i disegni, la scrivania di mamma e papà. Una vita come tante, dalla felicità semplice che forse agli Dei in qualche modo aveva dato fastidio o forse no, forse certe cose non hanno una spiegazione e basta.
Benedetta maledizione.
“Ricordi?” No, non ricordi e forse è meglio così, io ricordo la pioggia di quel giorno.
Avevo scordato l’ombrello.
Fradicia sull’uscio di casa ferma per un tempo indefinito a guardare il vuoto. Non era solo l’ombrello era il primo dei vuoti infilatisi uno dietro l’altro, un giorno in cui tutto cominciò a cancellare il prima, dividendolo per sempre da un dopo indefinibile.
E la casa sarà a due passi dal mare proprio vicino a quella della nonna, così faremo lunghissime passeggiate con lei. Sarà bellissimo- Le pettinava i capelli lucidissimi e una nuvola di profumo di talco, il tepore del bagno caldo, la nebbiolina che appannava lo specchio, mi accoglievano al ritorno a casa. Rimasi incantato dalla bellezza delle mie donne, pensai che di non meritare tutta quella meraviglia, intercettai un secondo del discorso e restai turbato cercando di non rovinare quell’attimo
“Perché hai detto quella cosa?”
“Quale cosa?”
“Della casa, di tua madre”.
“Mi sembrava una bella idea. È bello lì. Saremmo felici, anche lei”
“Lei, chi?”
“Mia madre, sarebbe felice di saperci vicini a lei…”
“Tua madre. Cosa dici? Tua madre…”
Sua madre era andata via per sempre un mese prima. Forse non aveva ancora elaborato il lutto, forse.
Non ebbi il coraggio di continuare, solo dopo capii che semplicemente l’aveva dimenticato come il crescendo dei vuoti, piccoli spazi in cui finiva un appuntamento, una data, una cena, un incontro. Tutto risucchiato in un enorme imbuto. Giorni di assenza totale, di panico. Fino alla decisione di smettere di fingere che fosse tutto sotto controllo.
“Un esordio precoce. Succede a un caso su dieci. Ci saranno progressivi peggioramenti, a causa della degenerazione graduale dei tessuti cerebrali. È brutale ma è giusto che siate coscienti del percorso”.
Ascoltavo osservando i movimenti ritmici del dito che sistemava gli occhiali sul naso mentre lei sembrava quasi assente, come non avesse capito del tutto il discorso fatto dal camice bianco per prepararci ad un futuro che mi sembrò impossibile da affrontare.
“Dimenticherà tutto? Anche noi?”
“Nessun paziente è simile a un altro”.
Tornammo con un macigno sul cuore. Ogni giorno sembrò un anno, un pezzo perduto per sempre. Fermammo lo studio decidendo che la casa al mare in affitto fosse una buona idea, per staccare. Facevamo lunghe passeggiate, tenevo entrambe d’occhio senza perderle di vista. Lei prendeva appunti, segnava giorni, ore, date, piccole frasi su un taccuino dal quale non si sperava mai. Diceva che era un modo per fermare le cose che sembravano fuggire via. La piccola cresceva veloce, le teneva la mano, l’accompagnava come fosse stata lei la mamma. Le pettinava i capelli, la tirava via dalla riva per non farle bagnare i piedi. Per una frazione di secondo uno di quei giorni immensi, mi prese un moto di tristezza, ero stanco, le guardavo camminare sfiorando le onde. Cominciai a perdermi tra i pensieri, il movimento ipnotico dell’acqua mi portò via per un secondo. Mi sentivo egoista ad avere bisogno di chiudere gli occhi per smettere per un attimo di pensare. Tirai su gli occhi e lei era sola. Mi prese l’angoscia da farmi scoppiare la testa. Mi tirai su, correndo verso lei
“Dov’è la bambina. Era qui con te, dov’è?”
Lei scuoteva i capelli lunghi sulle spalle, mi guardava senza vedermi, sentii salire la rabbia e la paura, urlai, da togliere la voce, correndo senza capire. Passarono interminabili minuti che sembrarono ore, quando la vidi spuntare in lontananza
“Avevi dimenticato gli occhiali, mamma vedi laggiù. Te li ho ripresi come fai senza?”
Crollai ai piedi della piccola, stanco felice di poterla stringere ma ero troppo stanco. Un istituto, mi dicevano che quella poteva essere una soluzione. Io non volevo un istituto per lei, non potevo pensare di vederla lontana, come si deposita una scatola senza più nulla dentro. Siamo fatti di ricordi, ogni pezzetto di quello che siamo lo abbiamo costruito e incastrato tra milioni di altre cose, lei perdeva ogni cosa costantemente. Ma tenerla lontana non poteva essere la soluzione. Ci affidammo ad una donna, per badare alla piccola aiutare lei che spesso non ricordava neanche chi fosse.
“Bisogna insegnarle le cose papà. Poi le dimentica, e allora noi gliele ricordiamo ancora. Vedi stava dimenticando il mio compleanno, ma poi basta che le facciamo vedere un disegno e così lei ricorda. Ci vuole solo un po’ di pazienza”. Cinque anni e mi spiegava come andare avanti, aveva capito ogni cosa e mi sembrò di vedere sua madre, attraverso le sue labbra, ogni cosa era diventata semplice e possibile. Le insegnava i passi che prima facevano insieme ridendo, quando cominciavano a ballare e cantare in giro per casa. Le spiegava i colori, e come si chiamano le cose, lei ascoltava, dimenticava, si annoiava, e così finivano per ridere insieme cercando un equilibrio sull’abisso. La spiaggia era il riparo, un rifugio. Continuò ancora ad uscire, a volte pretendendo di raggiungere la spiaggia da sola, io la seguivo, le stavo a due passi, una passeggiata dopo l’altra, sapevo che prima o poi sarebbe successo. Vidi il suo sguardo più vuoto, diverso, lontano come ad afferrare chissà quale pensiero. La guardai come a stringerla senza sfiorarla
“Mi scusi sa, ho perso gli occhiali. Li perdo sempre”.
“Se vuole l’aiuto” le dissi.
“Lei è molto gentile. Grazie devo prendere i miei appunti, Non posso senza gli occhiali”.
“Devono essere appunti molto preziosi”.
“Oh sì lo sono. Io scrivo tutto. Io credo di avere qualcosa, una strana malattia sa, mi fa dimenticare le cose, e non ricordo come si chiamasse, non so proprio che malattia sia, non lo ricordo proprio. La conosce? Lei saprebbe dirmi il nome?”
“No, proprio non lo so. Davvero proprio mi sfugge”.
Camminammo a lungo per altri giorni, ogni giorno, ricominciando come fosse sempre il primo giorno, ogni giorno, come il primo.

Stefania Castella

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