Esattamente cinquant’anni fa appariva in libreria il romanzo di Brian Garfield, noto in Italia con il titolo Il giustiziere della notte. A breve giro sarebbe apparsa la versione cinematografica con Charles Bronson. Da allora sono stati versati fiumi di inchiostro…
Appena si cita Death Wish la maggior parte delle persone pensa al film del 1974 con Charles Bronson nei panni di Paul Kersey, un architetto diventato vigilante dopo che dei teppisti di strada hanno violentato sua moglie e sua figlia, provocando la morte della prima e l’internamento psichiatrico della seconda. Dietro al film, c’è un romanzo magistralmente scritto da Brian Garfield.
Brian Francis Wynne Garfield (New York, 26 gennaio 1939 – Pasadena, 29 dicembre 2018), ha pubblicato una settantina di romanzi, ed è morto in seguito alle complicazioni causate dal morbo di Parkinson. È cresciuto a Tucson ed è stato profondamente influenzato dalla tradizione dei pionieri del West. Nato a New York City, si è trasferito a Tucson con sua madre, la nota ritrattista Francis O’Brien, all’età di 7 anni.
Innamoratosi dei cavalli e appunto della mitologia della Frontiera, indirizza i suoi interessi verso la narrativa western, un genere che lo ha fatto esordire: scrive il suo primo libro, il western pulp Range Justice, a soli 18 anni. E continuerà a sfornare western mentre frequenta l’Università dell’Arizona, dove ottiene sia la laurea (1959) che il master (1963).
Pur prediligendo la scrittura, ad un certo punto accarezza l’idea di diventare una star del rock’n’roll. Alla fine degli anni ‘50, la sua band, i “Casuals” – in seguito ribattezzati “Palisades” – ottiene un buon successo a Tucson. La popolarità del momento non riesce però ad emergere oltre la Costa orientale: il riconoscimento nazionale non arriverà mai. E così la band si scioglie.
La fama come scrittore arriva solo con Death Wish, grazie all’adattamento cinematografico. Garfield continuerà a dichiarare che il film non aveva colto la natura del romanzo. Non ne era contento, come di nessuno dei suoi quattro sequel: “L’essenza di Death Wish è che il vigilantismo è una fantasia attraente, ma nella realtà non fa che peggiorare le cose. Alla fine del romanzo, il protagonista uccide adolescenti disarmati perché non gli piace il loro aspetto. La storia parla di un uomo normale che precipita nella follia”.
Lo scrittore sosteneva che si era avvicinato al progetto Sidney Lumet, che avrebbe voluto ingaggiare Jack Lemmon e girare una pellicola in bianco e nero. Ma non se ne fece più niente.
Si calcola che Garfield abbia venduto più di 20 milioni di copie dei suoi libri (tradotti in diverse lingue). Diciannove sono stati gli adattamenti per cinema e Tv.
Pubblicato per la prima volta nel 1972, il nome originale dell’iconico protagonista è Paul Benjamin, un professionista di successo di mezza età sul punto di diventare socio dello studio commercialista dove lavora. Le basi della storia sono le stesse nella carta e nello schermo – un cittadino liberal e non violento si trasforma in un vigilante per combattere l’ingiustizia e la violenza di strada – ma le somiglianze finiscono qui. Il film diretto nel 1974 da Michael Winner, col suo stile “sporco” è uno dei migliori thriller polizieschi su New York apparsi negli anni ‘70, ma il romanzo è “altro” rispetto alla pellicola. D’altronde, per quanto il film gli abbia dato la celebrità, Garfield non perderà occasione per denigrarlo: “[Il film] cominciava come la storia di un personaggio confuso, frustrato, radicalizzato che, alla fine, va in giro ad ammazzare ragazzini inermi soltanto perché non ama il loro sguardo e per questo si ritiene un eroe. Credo che il risultato inevitabile sia il vigilantismo. L’errore che ho commesso nel libro è stato quello di avvicinarmi troppo a questo punto di vista. Forse non sono riuscito a spiegare che il personaggio era un pazzo. Però, nel romanzo, le sue azioni sono chiare. […] Il film ha distorto tutto, trasformando il personaggio in un eroe. Nel film non c’era nessuna ambiguità morale” (intervista a Lia Volpatti, “Il Giallo Mondadori” nr. 1733 – 18 aprile 1982).
Indubbiamente, il romanzo ha obiettivi radicalmente diversi, e più complessi, rispetto al film. Il libro si pronuncia esplicitamente sulla controversia sulla quale ruota il film, vale a dire se è pro o contro il vigilantismo. D’altro canto, il “desiderio di morte” non condiziona le dinamiche di questo romanzo d’azione: Paul non impugna una pistola per due terzi della narrazione. Garfield è interessato a costruire una trama che mescola psicologia, filosofia e sociologia, nel dichiarato tentativo di analizzare le inquietudini che avvolgono il mondo occidentale contemporaneo. Come affrontiamo la violenza quando ne siamo vittime? Come rispondiamo ai nostri impulsi violenti e da dove vengono? Come amministriamo la giustizia? Diviso tra paranoia e senso di colpa, paura e rabbia, Paul Benjamin è il nesso morale della società americana, un individuo che crede sinceramente nella democrazia a livello concettuale, ma non sa come individuarla nel mondo reale.
Forte della sua esperienza precedente come scrittore, Garfield confeziona un western metropolitano. Uno degli elementi alla base delle sue tematiche è come la comparsa della violenza improvvisa possa alterare notevolmente il modo in cui una persona vive e agisce. Può tirare fuori il meglio, il peggio o le azioni più imprevedibili. Death Wish è la sua esplorazione più lucida e meditata sulle profonde ramificazioni emotive, morali e psicologiche della violenza, dal punto di vista sia della vittima che dell’aggressore. E la complessità che rende avvincente il romanzo parte dall’assunto che vittima e aggressore alla fine si fondono.
È il moto di Paul da un ruolo all’altro che popola la maggior parte del romanzo. “Ora doveva abituarsi a un intero nuovo universo di realtà”, scrive Garfield, descrivendo il cambiamento di percezione di Paul. “Ora si ritrovava a scrutare ogni volto alla ricerca di segnali di violenza”. È straordinario, e sconvolgente, come il mondo che Paul vede – e che noi scrutiamo attraverso di lui – diventi sempre più minaccioso, permettendo alle nostre peggiori paure, pregiudizi e incertezze di manifestarsi con nitidezza paranoica. “Il corpo è marcio, la mente si è deteriorata; prosperavano solo i demoni delle fantasie inconsce”.
Ma Garfield – e in una certa misura Paul – non è ignaro del cambiamento interiore che sta avvenendo. “Non serviva a niente fingere che l’oscurità che succhiava l’anima non fosse animata dal terrore. Il battito del suo cuore era forte come gli echi dei suoi tacchi sul cemento”. Questa consapevolezza di sé è qualcosa che manca nel film. Il comportamento silenzioso di Charles Bronson non ci consente di accedere al suo processo di pensiero; quindi, se sta vivendo lo stesso tipo di rivelazioni, se lo tiene per sé. Non è così nel romanzo, dove lottiamo al fianco di Paul sprofondato nella sua metamorfosi.
Un’altra difformità significativa tra il libro e il film è la rappresentazione della violenza. Death Wish, come girato dal regista Michael Winner, è un thriller: genera una corsa emotiva insieme a Bronson. Ma non è il caso del libro. Solo il primo omicidio è raffigurato esplicitamente, ma è più nauseante che eccitante. Winner eccelle nel dipingere questa discesa personale agli inferi fatta di vicoli e parchi bui. Il girovagare circolare di Paul Kersey nel quartiere di Riverside diventa un vortice dopo il suo primo omicidio a sangue freddo: è in trance prima di premere il grilletto. Tornato a casa, crolla a terra e poi vomita nel water.
Dopodiché, le uccisioni sono brevi, brusche e come distaccate, surreali. Che è il modo scelto da Garfield per descrivere la svolta sociopatica di Paul. “La seconda volta, l’uomo che aveva cercato di rapinare la banca, lo aveva percepito molto poco; lo ricordava con vago distacco come se si trattasse di una scena di un film che aveva visto tanto tempo prima”. Garfield è ancora più chiaro nelle sue intenzioni quando scrive questa frase, che toglie tutto l’eroismo alle gesta del vigilante di Paul: “Stava mantenendo il proprio equilibrio solo perché sembrava essere stato trafitto dallo stesso malessere che aveva contagiato Carol: l’incapacità di provare qualcosa”.
Leggendo il romanzo oggi, è chiaro che Garfield non sta sponsorizzando il vigilantismo.
In più interviste lo scrittore ha dichiarato che il romanzo era basato sulla sua reazione violenta quando fu vittima di un crimine, e quanto si fosse disgustato dalla sua improvvisa sete di vendetta: “Il personaggio di Paul Benjamin era una sorta di uomo qualunque per me. L’impulso per la storia di Death Wish arrivò una notte alla fine del 1971. A quel tempo, vivevo lungo il fiume Delaware, vicino a Lambertville NJ, ed ero andato a New York in macchina per presenziare a una festa a casa di un amico editore. Ho parcheggiato in strada. Quando sono sceso ho scoperto che qualcuno aveva fatto a pezzi la capote della macchina. Ho dovuto guidare per due ore fino a casa in un freddo gelido, e intanto pensavo all’idea di trovare il tizio che aveva tagliato il tettuccio. Non l’ho mai trovato, ma ne è nato il romanzo; quindi, penso di aver avuto la meglio su di lui” (intervista a Cullen Gallagher, “Pulp Serenade”, 16 settembre 2011).
Perdura, purtroppo, un equivoco di fondo intorno al romanzo. Death Wish descrive un conflitto interiore, ma alcune interpretazioni sembrano non aver colto il punto. Non pochi critici lo considerano un romanzo pulp spaventoso sulla vita e la morte vissute attraverso i sentimenti di un cittadino in una New York dominata dal crimine. Proprio non riesce a filtrare il vero traguardo di Garfield: smascherare la mitologia della violenza e rimuoverne di conseguenza il romanticismo dalla narrativa poliziesca. Un’operazione, del resto, che Garfield ha applicato anche al western, cambiando il modo in cui funzionava il genere, i caratteri dei personaggi e gli spazi fisici che animavano. Un pragmatico, interessato a persone e luoghi reali. Il tutto sostenuto da trame mozzafiato, estremamente veloci: un grande scrittore con idee avvincenti e una voce assolutamente originale.
Non a caso, in un brano di Death Wish, Garfield riflette sulla sua relazione con i western: “Accese la TV e si sedette a guardarla. Uno dei canali locali stava ritrasmettendo una serie di film western che la rete aveva cancellato anni fa. Cowboy che se la prendevano con gli agricoltori e un eroe alla deriva che difendeva i contadini dai pistoleri. Guardò per un’ora. Era facile capire perché i western fossero sempre popolari ed era stupito di non averlo capito prima. Era storia di uomini. In qualunque direzione si voleva andare, c’erano sempre uomini che lavoravano la terra e c’erano sempre uomini a cavallo che volevano sfruttarli e portargli via tutto. E il mitico eroe difendeva i contadini contro i predoni a cavallo, e la costante contraddizione era che l’eroe stesso era costantemente a cavallo…”
Molto banalmente, l’ostilità di Garfield nei confronti del film di Winner trovava giustificazione solo per il fatto che sentiva che la sua “storia a tesi” era stata deformata. Forse avrebbe avuto bisogno di confrontarsi con Alberto Moravia, uno che aveva risolto il rapporto controverso tra lo scrittore e il cinema, standosene in disparte rispetto alla trasposizione filmica dei suoi romanzi: “Il rapporto tra l’opera letteraria e il film è simile a quello che corre tra la materia e l’opera d’arte. Un cineasta nell’ispirarsi ad un romanzo può capire o non capire; riuscire o non riuscire a far capire agli altri quello che si vuole esprimere”.
Ma quando parliamo de Il giustiziere della notte (Death Wish, 1974), diretto da Michael Winner, dobbiamo riconoscere di essere in presenza di un film estremamente potente e inquietante. Winner e Bronson avevano girato insieme Chato’s Land (1972), The Mechanic (1972) e The Stone Killer (1973). Ciò significa che l’intimità era allo zenit tra il regista e il suo interprete al momento delle riprese, nel 1974. Script virulenti e ricchi, estetica decadente e potenza visiva, tutti e tre i film erano stati un grande successo al botteghino. La sceneggiatura di Wendell Mayes, che adattava il romanzo, creò le condizioni di un vero stato di grazia (ma venne rifiutata da Steve McQueen e Clint Eastwood). Poi arrivarono quattro orrendi (più o meno) sequel con un Bronson “robotizzato” in una sorta di Willy il Coyote dei cartoon della Warner (1981, 1985, 1987, 1994), e un remake imbarazzante nel 2018 con Bruce Willis (negli anni Ottanta si era accostato all’idea anche Sylvester Stallone). Senza dimenticare la mirabile variazione Death Sentence (id, 2007), di James Wan, tratta dal secondo romanzo di Garfield del 1975 (adattato nel 2007 dall’autore stesso), che ne rappresenta il vero seguito (non quello cinematografico), scritto più che altro per stabilire che il protagonista, pur con tutte le giustificazioni del contesto in cui si era trovato ad agire, era un folle.
Death Whish giunse nelle sale in un contesto di preoccupazione per l’acuirsi della violenza nelle grandi metropoli occidentali. Il film appariva come premonitore, i sociologi erano consapevoli che i fenomeni avvenuti negli USA si sarebbero riprodotti identici e inesorabilmente in Europa negli anni a venire. La prima grande qualità del film risiede nella sua struttura: c’è tutto il tempo per identificarsi con il protagonista – che appunto cambia nome in Paul Kersey – durante i primi 40 minuti, fino al primo omicidio che commette per legittima difesa. Bronson non è più un killer a contratto, un ispettore di polizia, o un Apache ribelle come nei tre film precedenti dove la distanza era stabilita dal genere stesso. È qualcosa di diverso.
Poliziesco di svolta e simbolo degli anni Settanta, descrive il dramma dell’America, atterrita dalla delinquenza, divisa tra le generazioni, e che si interroga se non sia necessario, come accadeva nei giorni del selvaggio West e dei comitati di vigilanza, farsi giustizia da soli. Ancora un passo e il poliziotto sarà sostituito dal cittadino: Charles Bronson non è altro che un uomo comune, spinto al limite dalla violenza di una società che si sta disgregando. Partendo da questa idea di base, Winner smantella sadicamente la labile barriera morale ancora presente nella mente dello spettatore benpensante. Paul Kersey è sposato, padre, architetto in uno studio rispettabile, è stato obiettore di coscienza durante la guerra di Corea, prestando servizio come infermiere nel corpo medico attivo. I suoi colleghi all’inizio scherzano con lui definendolo “liberal” che equivale ad “avere il cuore a sinistra”. Non ha paura ed è felice di vivere in questa grande città. E ovviamente tutte queste caratteristiche verranno utilizzate con abilità per ribaltare e rendere ancora più insicuro il resto della storia: una volta che sua moglie viene picchiata a morte e sua figlia diventa demente dopo essere stata violentata, i segnali di normalità saltano uno dopo l’altro e a poco a poco albergano negativi. Kersey sperimenterà la paura, la follia, il panico, la vertigine del proibito (che sua moglie e sua figlia hanno già sperimentato, a costo della loro vita o della loro ragione). In un certo senso infliggerà e subirà violenze urbane fino al punto di svenire, e scoprirà ciò che non avrebbe dovuto sapere (la paura della polizia, il piacere sadomasochistico di essere lui stesso un gioco offerto alle prede che vuole abbattere). Man mano che il film procede, la luce si spegne e le zone d’ombra si ingrandiscono ulteriormente. Bronson sprofonda in un infernale Riverside Park, in un certo senso L’Inferno di Dante rivisitato dove lo aspettano animali pazzi ma spietati e intelligenti… o lui o me.
L’inizio del film si svolge su una spiaggia delle Hawaii poi si torna in città, quindi, si sprofonda di notte nei suoi parchi, nella sua metropolitana, nei suoi anfratti. Il denaro con cui Bronson paga il permesso di fotografare sua moglie su una spiaggia, lo guadagna costruendo città, ma una volta tornato nel suo ambiente naturale, vogliono derubarlo e ucciderlo. L’intera città finalmente si rivela ai suoi occhi come una trappola: “Dopo la spiaggia, la città. E sotto la città, l’inferno!”. L’ambiente sempre più oscuro intorno a Kersey è coerente con il crescente potere degli attacchi sempre più crudeli con cui deve confrontarsi. Il più strabiliante è, senza dubbio, quello che si svolge senza uno scambio di parole nel vagone della metropolitana: la sequenza più brutalmente raffinata e stilizzata vista su uno schermo del periodo 1970-1980.
Kersey viene aggredito in metropolitana da due afroamericani: si odono perfettamente lo sferragliare del vagone e le pallottole, non le parole degli aggressori che muovono distintamente le labbra. La polvere da sparo parla, ma non le minoranze. È ancora più oscuro perché i teppisti che hanno rovinato la vita di Kersey sono bianchi. I Cattivi sono parte integrante di un ambiente urbano da incubo, come animali inseparabili da una giungla.
Il rapporto di equivalenza tra carnefice e vittima è assoluto. Il tempo stesso della sequenza viene dilatato; la profondità di campo e l’amplificazione degli angoli provocano un’oppressione raramente eguagliata. Possiamo dire che Winner e il suo direttore della fotografia Arthur J. Ornitz l’hanno concepito come un cardiopalmo, che la musica di Herbie Hancock spinge al suo apice. Lo scenario oscilla costantemente tra l’ironia nera e la riflessione in forma di gioco di specchi e spettacolo nello spettacolo: una scelta che aumenta ulteriormente l’ansia dello spettatore. La sceneggiatura rende Kersey non solo il ricettacolo della contaminazione, ma il suo catalizzatore e il suo propagatore simbolico nei media.
Ovunque vada, questa stessa contaminazione si ripete circolarmente e instancabilmente. Kersey è diventato l’incubo collettivo di New York: è sia il “titolare della posta in gioco” che il simbolo rivelatore e sacrificale.
A questa dinamica è legata tutta l’ambivalenza del sacro, del puro e dell’impuro, del proibito e del consentito. Ambivalenza di cui Michael Winner è magistrale in uno dei suoi film migliori.
Attorno a Bronson ruotano attori bravissimi ma nessuno ha sufficiente individualità per essere al suo livello. Famiglia, polizia, criminali, colleghi d’ufficio, amministrazione sono entità simboliche piuttosto che personaggi a sé stanti. La trama li vuole così per poterli contaminare collettivamente più decisamente e rafforzare l’identificazione narcisistica dell’eroe con lo spettatore. Parafrasando il famoso studio freudiano, si potrebbe dire che tra il Super-Io (famiglia, colleghi, polizia) e l’Es (criminali), l’ego mantiene quasi sempre la sua integrità ma alla fine Kersey si dissolve come persona per diventare ciò che erano già i suoi aggressori: elementi semplici di una relazione funzionale.
Un’idea forte della sceneggiatura è che Kersey non troverà mai gli aggressori della sua famiglia e quindi non potrà vendicarsi: dunque, la sua crociata è degna di un Sisifo impazzito, condannato a svuotare le sue cartucce in una violenza senza fondo. In Death Whish, i criminali non sono mai caratterizzati psicologicamente. Raramente sono anche nominati. Sono solo i Cattivi (ladri contro poliziotti, indiani contro cowboy).
È tensione pura, insopportabile, che lacera l’eroe e minaccia di dislocarlo ma sarà annientata nei film seguenti: Kersey si trasformerà per lo spettatore in un personaggio mitologico fin dall’inizio. Il gioco della messa in scena e della suspense passerà a un raddoppio della posta in gioco: Kersey dovrà affrontare bande selvagge con una barbarie decuplicata.
Come accennato, dovremo aspettare il notevole Death Sentence, variazione innovativa di Death Wish, per trovare una scrittura e una regia di una grandezza e di una potenza identiche a quelle del film del 1974.
Ciò che emerge nel film, con mirabile lucidità, è che l’ispettore Harry – il Callaghan di Clint Eastwood – ci piace ma non Paul Kersey. Non è uno che agisce per legittima difesa: se fa sparare per primi i suoi aggressori, è dopo averli provocati e infine sparato alle spalle. È davvero un predatore, a cui piace il fegato della preda.
A parte un Charles Bronson lodevole, che gesticola durante le scene di dialogo, ciò che ricordiamo di Death Wish è che è sintomatico di un’intera epoca. Una pellicola soffocante che vale più del profumo emotivo che emana. Perché, come quasi tutti i film di Michael Winner di questo periodo, è peggio che reazionario.
Si narra questo dialogo tra regista e attore: [Winner] “Charlie, il miglior copione che ho in questo momento si chiama Death Wish. Parla di un uomo la cui moglie e figlia vengono aggredite da delinquenti e lui decide di sparare ai delinquenti”. [Bronson] “Mi piacerebbe farlo”. [Winner] “Fare il film?” [Bronson] “No, sparare ai delinquenti!”
Nel 1974, Winner si trascinava da tempo la sceneggiatura del film, rifiutata da tutti gli studios. All’epoca, l’idea di un normale cittadino che spara ad altri in un film faceva paura. Dino de Laurentiis alla fine accettò di produrlo, ma lui e la Paramount erano consapevoli di camminare sulle uova. Il CEO della Paramount era preoccupato per l’esorbitante numero di teppisti neri mostrati nel film. De Laurentiis avrebbe voluto rinominare il film The Sidewalk Vigilante/La giustizia del marciapiede con il pretesto che la parola Death del titolo avrebbe spaventato gli spettatori.
Winner volle imporre il famoso piano sequenza finale – che né Bronson, né i produttori apprezzarono -, che asseconda l’esistenza della nevrosi in Paul Kersey. E il fatto, quindi, che si diverta a uccidere i delinquenti.
Death Wish è un indizio della crisi morale dell’America degli anni ‘70, e di cui il cinema fa cassa di risonanza. La produzione cinematografica si alimentava, allora, di un contesto politico, economico e morale travagliato. Si accumulavano le disillusioni nate dallo stallo del Vietnam, la sfiducia nelle istituzioni (affare Watergate) e i conflitti sociali. L’utopia della controcultura di sinistra degli anni ‘60 era stata screditata (impensabile un nuovo Easy Rider). Gli americani si trovavano di fronte a una realtà ostile alla quale non sembravano poter opporre soluzione o coesione. Assediati, gli eroi del cinema americano si sentirono improvvisamente soli, senza risate né applausi. Alcuni inforcarono le armi: Harry Callahan (Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!), Popeye Doyle (Il braccio violento della legge), David Sumner (Cane di paglia). Tanti eroi delle fiction (di destra), grandi individualisti agitati da una fredda fiamma, marginali che deflagrano incarnando le tensioni che attraversava la società americana. Contesto ideale per scatenare, a Hollywood, una sorta di controrivoluzione che veicola attacchi conservatori contro le idee dei liberali (nel senso americano del termine, cioè progressisti, di sinistra), accusati di aver contribuito all’esplosione della criminalità urbana a partire dagli anni ‘60. Con Death Wish, siamo nel cuore di questa depressione: un liberal urbano è conquistato dall’immaginario del singolo schiacciato dalle istituzioni. Alla sua uscita nel 1974, il film fu classificato dalla critica americana come una finzione borghese bianca e reazionaria (Roger Ebert scrisse “un film quasi fascista”). Allo stesso tempo, alimenta il dibattito, abilmente generato da un Winner molto furbo nel suo film. Kersey contempla tutto il clamore generato intorno alle sue azioni, dalla televisione ai giganteschi cartelloni pubblicitari per la stampa. L’ambiguità dell’operazione fa sì che anche i progressisti militanti applaudano. In fondo, c’è dell’ironia nella rappresentazione di un architetto – presunto creatore di equilibri – che vede metodicamente sgretolarsi la propria felicità e diventare un nevrotico distruttore: il “desiderio di morte” del titolo è sì letteralmente un desiderio di morte ma anche un impulso autodistruttivo.
La nevrosi di Kersey è anche la sua conversione alle idee dei pionieri, riflesso del ritiro reazionario dell’America degli anni ‘70. Una nostalgia per gli aspetti più di retrogradi della Conquista del West. Come architetto, Kersey vede aleggiare su di sé l’ombra dei costruttori d’America: concepisce un progetto immobiliare che rispetta l’ambiente delle colline dell’Arizona (come in un rito di passaggio). Partito con la volontà di ripulire New York, diventa lui stesso uno di quei pionieri – anacronistici – che dovrebbero cambiare l’ordine delle cose, costruire una società migliore visto che le sue azioni presto contamineranno la città e faranno nascere dei vigilantes. Quando il detective Ochoa gli ordina di lasciare New York, un mezzo divertito Kersey risponde come in un western: “Prima dell’alba?”
Il britannico Michael Winner fotografa la sfiducia degli americani nei confronti delle loro istituzioni di allora, cristallizzata nel film dall’atteggiamento delle autorità: in linea di principio rifiutano l’idea che un vigilante agisca indisturbato. Ma approfittano della paura suscitata da Kersey (il tasso di criminalità scende). Arrestato, viene cacciato fuori città ma il fatto che il pubblico lo ignora continuerà a scoraggiare i criminali. Un calcolo sbagliato, e un atteggiamento irresponsabile, poiché inviandolo a Chicago, le autorità di New York stanno solo spostando il problema. Kersey è determinato a perseguire il suo hobby. La conclusione è quindi aperta, come spesso accade nel cinema di Michael Winner: nulla è veramente risolto. Il municipio di New York calcolerà buone statistiche, ma per quanto tempo. Kersey vuole più morti. E anche lo spettatore.
Il giustiziere della notte regge il logorio del tempo in virtù della sua deliberata opacità, incoerenza. Se Winner sostiene le idee di Kersey, sta dalla parte di un uomo che ha descritto come un paranoico. Allo stesso tempo, il carisma di Bronson (il suo assordante silenzio) e l’impotenza delle autorità sono un modo per il regista di guadagnarsi l’approvazione dello spettatore.
Ma l’inquadratura finale di Kersey, che finge di mirare ai bruti con le sue dita a simulare una pistola è tanto la promessa di un sequel quanto un avviso allo spettatore. E, non si sa quanto consapevolmente, Winner sembra ironizzare su di un passaggio del romanzo di Garfield (assente nel film) in cui Benjamin/Kersey spara a due passanti che hanno avuto la sfortuna di trovarsi sul suo stesso marciapiede.
La società americana è ridotta a un colabrodo da Winner: Death Wish è un film infestato dall’economia, dal denaro. Un sottotesto che rende tutto ancora più ambiguo.
Si parla solo di soldi, i Cattivi sono poveri (un collega di Kersey auspica l’internamento dei poveri nei “campi di concentramento”), e le “persone oneste” fanno l’equazione “criminale = nero = povero” (uno dei tanti delinquenti uccisi da Kersey si chiama Georges Rich!).
La violenza degli aggressori sulla moglie e sulla figlia di Kersey esplode quando i criminali si rendono conto che le loro vittime non hanno soldi con sé. Uno dei teppisti – interpretato da un giovane Jeff Goldblum. che si aggiudicò il ruolo dopo un convincente provino in cui “violentava” una sedia – esclama addirittura: “Odio le puttane ricche”.
L’eroe si chiede se l’assicurazione sarà in grado di coprire le cure di sua figlia. Due scene sono particolarmente esplicative: Kersey che guarda un idilliaco spot televisivo che esalta i meriti del denaro a credito e, soprattutto, Kersey che si difende da un delinquente con una specie di fionda costituita da una calza piena di monete. L’arma è così insolita – quasi ridicola – che ha il solo scopo di chiarire che il film parla anche di violenza economica. Si potrebbe dire che i soldi “sono troppo costosi”, e Kersey è un buon paladino del capitale e della proprietà privata.
Sta a noi capire se Winner fa satira sociale o ci crede veramente. Anche perché rimane questo frammento di una sua vecchia intervista: “Non biasimo i teppisti. Quando sei frustrato finanziariamente, fai di tutto per sopravvivere. Come puoi guardare la tua famiglia affondare senza reagire? Il denaro è il loro motore principale e non possiamo biasimarli perché permette loro di vivere liberi”.