Storia di un pugile e un poeta

Quando gli agenti si avvicinarono al fagotto di stracci che giaceva in un angolo della 42esima, sulle prime non compresero che si trattava di una persona. Se ne resero conto solo quando quel mucchietto di ossa tremolanti si lasciò scappare un flebile sospiro. Sarà un moccioso, pensò uno dei poliziotti. L’ennesimo vecchio ubriacone, si lasciò sfuggire un altro uomo in divisa. Solo quando lo aiutarono a tirarsi in piedi e lo portarono alla centrale per fargli le solite domande e metterlo al fresco, quegli uomini si resero conto che non si trattava di un bambino, tantomeno di uno che aveva bevuto. Alfonso non proferiva parola, si lasciava guardare come la principale attrazione di uno spettacolo appena giunto in città, dopotutto cosa altro aveva fatto nella sua breve vita se non farsi ammirare per un motivo o per l’altro? Era stato un pugile leggendario, il primo latinoamericano diventato campione mondiale dei pesi gallo. Quelli che lo stavano interrogando forse avrebbero potuto anche riconoscerlo. Certo, mai avrebbero immaginato che Alfonso era stato tanto altro. Il compagno di scena di Joséphine Baker, ad esempio. O l’uomo che aveva ricevuto l’amore incondizionato di un poeta leggendario. No, di Jean non potevano sapere nulla gli agenti che lo circondavano. E nel pensare ciò, Alfonso tirò un sospiro di sollievo, temendo che se l’avessero saputo la sua sorte sarebbe stata ben peggiore. Era un panamense senza un soldo rinvenuto privo di sensi sul marciapiede di una trafficata strada newyorkese, già così la sua situazione era ben complicata. Fosse accaduto a Parigi, anche solo venti anni prima, non ci sarebbe stato alcun problema. Parigi era un altro mondo, Alfonso lo sapeva bene, ci aveva vissuto gran parte della vita. Lì aveva lasciato il suo cuore tra le candide dita di Jean. Lì avrebbe voluto tornare per morirci. Lì avrebbe voluto farsi seppellire. Si trovava però a New York e la metropoli più caotica del pianeta continuava in quell’inizio degli anni ’50 a voltare la faccia da un’altra parte e con rapidità se non eri bianco o se eri un uomo che amava altri uomini. E lo faceva come il resto del paese anche quando ti riempivano di botte per quei motivi. Nessuno avrebbe osato alzare le mani su Alfonso ai tempi in cui veloce e preciso atterrava chiunque gli si parasse davanti sui ring di mezzo mondo. Ma la sua vita aveva preso una piega differente. La tubercolosi lo stava divorando un passo alla volta, i postumi della sifilide contratta decenni prima avevano minato il suo fisico e i molti colpi incassati, specie negli ultimi disastrosi incontri, ne avevano fiaccato lo spirito. Non aveva ancora toccato la mezza età, Alfonso. E già si sentiva tanto vecchio da essere prossimo alla fine. Soltanto un desiderio lo avrebbe fatto morire in santa pace, poter risentire ancora una volta la voce melodiosa di Jean. Perse di nuovo i sensi mentre gli agenti tentavano di carpire da lui qualche risposta alle loro domande. Fu chiamato un medico. Fu portato in un ospedale. E lì rimase tra la veglia e il sonno i pochi giorni che gli restavano da vivere, tentando in maniera sconnessa di recuperare quante più immagini sbiadite poteva del proprio passato. Sperando fino all’ultimo che la voce di Jean lo avrebbe raggiunto e con la consueta tenerezza accompagnato in quell’ultimo viaggio.

Alfonso proveniva da una poverissima famiglia di immigrati afrocaraibici giunti a Panama alla disperata ricerca di una vita migliore. Di suo padre, lui parlava pochissimo. Era morto per la troppa fatica quotidiana quando Alfonso aveva solo tredici anni. E il ragazzino si era attaccato sempre più a sua madre Esther. Il loro rapporto era diventato per entrambi una piccola e battagliera società di mutuo soccorso. Esther voleva il meglio per il suo bambino. Avrebbe dovuto studiare, almeno quanto bastava per trovare un lavoro che gli avrebbe impedito di stramazzare come era capitato a suo padre. E mentre Alfonso studiava solo nella misera casa che occupava con la madre, Esther lavorava quasi la giornata intera come donna delle pulizie. Nei momenti liberi, Alfonso bighellonava in prossimità del Canale e osservava il lento passaggio di quei cargo giganteschi che avevano fatto la fortuna immensa di Panama. Un giorno anche lui sarebbe salito su una di quelle grosse navi e avrebbe preso il largo. Voleva girare il mondo, approdare in terre sconosciute, vivere avventure infinite. Di tutto questo, Alfonso non faceva parola con sua madre. Temeva che l’idea di perdere il suo bellissimo ragazzo le avrebbe spezzato il cuore. Alfonso però riusciva a pensare solo al giorno in cui avrebbe mollato quell’angusto lembo di terra per mettere piede nelle favolose città di cui aveva sentito tanto parlare dai marinai che sostavano a Panama mentre attendevano che la loro nave attraversasse il Canale. Terminò gli studi e ottenne un impiego nella società americana che gestiva il trasporto delle merci nelle acque panamensi. E fu durante una pausa di lavoro che gli capitò di assistere al suo primo incontro di boxe. Lo aveva organizzato un gruppetto di soldati americani di passaggio per far trascorrere più rapidamente il tempo. Alfonso ne rimase così impressionato che pochi giorni più tardi si presentò a quello che gestiva gli incontri chiedendo di poter salire sul ring. Ridevano quei giovanotti americani mentre osservavano quel minuto ragazzo di colore prepararsi a boxare. Erano certissimi che l’avversario di Alfonso lo avrebbe lasciato al tappeto boccheggiante. Chiusero il becco all’istante per lo stupore e la vergogna quando Alfonso con l’agilità di un danzatore e la prontezza di un lupo schivò colpo su colpo e mise il suo avversario al tappeto in pochi minuti. Poco dopo, Dave si presentò nell’ufficio dove Alfonso lavorava. Sarebbe stato il suo allenatore, gli avrebbe fatto da manager. Andrai lontano ragazzo, sei un talento nato, gli disse. Alfonso capì al volo che la sua occasione di andarsene era arrivata. Si abbracciarono stretti madre e figlio al momento della partenza per New York. E le lacrime copiose che bagnarono le loro guance sancirono per Alfonso il primo sofferto addio a una persona amata. Quattro anni più tardi, in un Madison Square Garden gremito all’inverosimile Alfonso conquistò il titolo che lo avrebbe tramutato in una leggenda del pugilato per i decenni a venire. E quella notte diventò per tutti Panama Al Brown.

Quando all’apice dei suoi trionfi mise piede a Parigi, Alfonso provò una emozione indescrivibile. Si era in pieni anni ’20 e la capitale francese era all’avanguardia per ogni singolo aspetto. La musica, l’arte, il cinema. E la libertà. Alfonso per la prima volta poteva respirare. Aveva compreso di essere omosessuale quando era ancora un ragazzino mentre spiava i marinai in sosta a Panama che giocavano mezzi nudi alla lotta. Non se ne era mai vergognato, solo non trovava le parole per comprendere e raccontare a se stesso i desideri della propria identità. Quelle parole sarebbero arrivate molto presto e a pronunciarle sarebbe stato un poeta già conosciuto ovunque per la sua capacità di intuire e anticipare lo spirito dei tempi. Alfonso si immerse nei vicoli di Parigi, la perlustrò da capo a piedi, sprofondò nelle sue folli notti di musica jazz e cabaret e frequentò con allegria smisurata i numerosi gay club che senza celarsi allo sguardo dei benpensanti erano dislocati un po’ ovunque in città. E prima che il suo prossimo incontro fosse fissato, si trasferì in pianta stabile in un appartamento parigino, deciso a farne la propria casa per il resto dei suoi giorni. La sera del suo secondo match a Parigi, Alfonso era in splendida forma. In prima fila tra il pubblico erano presenti artisti provenienti da ogni parte del mondo, dal pittore spagnolo che stava rivoluzionando il modo stesso di concepire l’arte allo scrittore americano che sarebbe diventato di lì a breve una autentica icona moderna per il suo stile asciutto e conciso. E poi c’era lui, Jean. Il poeta più all’avanguardia, l’artista che sapeva con un talento fuori del comune destreggiarsi in ogni disciplina con risultati eccezionali, l’uomo che desiderava tutte le esperienze e tutte le possibili esistenze. L’incontro cominciò. Una tensione chiassosa accompagnava i passi veloci e i colpi ben assestati dei due contendenti. E nel mezzo di quella che parve loro una lunghissima pausa, gli occhi di Alfonso e di Jean si incagliarono gli uni negli altri. E nulla per loro due fu più come prima. Si rividero quasi subito. Si erano cercati reciprocamente nei giorni successivi all’incontro di boxe. Quando alla fine si incontrarono, fu chiaro a entrambi che un sentimento li aveva legati stretti la sera in cui si erano visti la prima volta. Cominciarono a passare insieme ogni momento del giorno e della notte. Jean presentò Alfonso alla sua amica Joséphine. Dopo averlo visto boxare, Joséphine volle che Alfonso entrasse a far parte della sua compagnia di ballo. Alfonso alternava il ring al palcoscenico, non era mai stato così felice fino ad allora. Viveva la sua vita. Nemmeno i suoi più fervidi sogni di ragazzino avevano sfiorato ciò che gli stava accadendo in quel momento. Era in cima alla vetta più alta del mondo. Aveva tutto. Il successo però stava portando nella vita di Alfonso anche la bruttezza. Troppo alcol, troppa droga, spese folli per le auto che adorava e collezionava senza remore. E pur amando Jean, troppe nottate trascorse in letti di sconosciuti. Cominciò a perdere un incontro dietro l’altro. Il favore del pubblico lo stava abbandonando. Malgrado le richieste di Jean di disintossicarsi e lasciare la boxe, Alfonso si ostinava a combattere. Sarebbe tornato il campione che era, ripeteva in continuazione. A molte sconfitte però seguivano rade vittorie e le sue condizioni fisiche peggiorarono rapidamente. Jean gli intimò di smettere con la droga, fiaccato nel fisico e nello spirito lui si arrese e obbedì. Alfonso non si era accorto fino a quel momento che le montagne russe a cui aveva sottoposto il suo legame con Jean avevano finito con il ridurre quell’amore in brandelli. E quando tornò finalmente pulito dalla clinica in cui lo avevano curato, Jean si congedò da lui offrendogli eterna amicizia. Lasciò la sua amata Parigi, lasciò l’amato Jean. Altri due insopportabili addii. Ritornò a New York, solo e senza il becco di un quattrino.

Sto delirando, sicuro. Non può essere la voce di Jean, si affannava a ripetere Alfonso nella stanza vuota dell’ospedale in cui stava morendo. Non era in preda ai vaneggiamenti causati dalla malattia, quella che proveniva dal registratore che gli avevano accostato all’orecchio era la voce di Jean. Saputo che Alfonso stava morendo, Jean aveva registrato un nastro e tramite un amico giornalista l’aveva fatto recapitare all’uomo che mai aveva dimenticato. Erano parole d’amore quelle che Jean aveva inciso. Le stesse che stavano accompagnando Alfonso nel suo ultimo viaggio.

Alex Marcolla

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