L’hobby del sonetto e il disperato tentativo di opporre l’ordine al caos

Oggi parlerò di una storia d’amore: quella tra Pasolini e Ninetto Davoli; parlerò soprattutto di come terminò negli anni tra il 1971 e il 1973 e lo farò a partire dal canzoniere dedicato da Pasolini a Ninetto e scritto proprio in quel periodo disperato.
L’hobby del sonetto è un libro poco noto, un libro in cui il poeta consegna al metro a lui più caro l’angoscia e il dolore per l’allontanamento di Ninetto dopo una relazione durata nove anni. Sebbene Ninetto abbia sempre sostenuto che l’incontro con il poeta avvenne sul set del film La ricotta, ne L’hobby del sonetto leggiamo che avvenne in un contesto diverso.
“Era estate, presso antichi bastioni/e una grande fontana che si apriva/come un enorme macabro fiore su ubriaconi/clienti di puttane. Ed era notte. Giuliva/si alzò una voce alle spalle di un uomo;/era la voce di un ragazzo. Lungo la riva/tra i rifiuti sparsi sotto quei torrioni/i due si presero a braccetto; e il viaggio/della vita cominciò.”
Il viaggio della vita che Pasolini condivise con Ninetto ebbe fine quando il giovane conobbe una donna della quale si invaghì. Ne parlò tardi al poeta, che non per possesso e gelosia soffriva, ma per il tradimento subito. Un tradimento non soltanto fisico, passionale, ma ideologico e spirituale. Ninetto, infatti, per accontentare la donna, una certa Patrizia, estromise il poeta dalla sua vita, iniziando a progettare un matrimonio che, per Pasolini, rappresentava la negazione di tutto ciò che insieme a Ninetto aveva vissuto. Per il poeta, Ninetto si allontanava dalla purezza e castità del loro amore per costruirsi “una casa nera in stile fascista” come nido. “Io vi derido per la miseria ‘piccolo borghese’/che il vostro amore vi designa e vi fa riscoprire;” scrive Pasolini. E ancora: “ecco sarà soddisfatta colei/che ha il genio della banalità;/…È vero anche, come sempre, che/ciò che hai comprato – i grevi mobili, il servizio/di thè d’argento (rubato), la cucina/finto-americana, insomma l’appartamento/che i parenti ammirano – sevizia/la mia povera anima libertina/in un vecchio, atroce struggimento”. Nove anni con Pasolini non avevano lasciato nessun segno se Ninetto sceglieva la convenzione e il consumismo rinnegando tutto ciò che quel periodo aveva rappresentato.

Il dolore di Pasolini è indicibile. Fin dall’inizio della raccolta invoca il suicidio. Non conosce pace, non comprende il comportamento di Ninetto sebbene in tutti i modi si sforzi di farlo per salvare almeno il ricordo di ciò che era stato. Mai il poeta si espone con tanta immediatezza, mai ho letto un Pasolini così afflitto e angustiato. E per farlo sceglie il sonetto, genere consacrato all’amore, e si rivolge a Ninetto come al suo “Signore”.
Pasolini aveva l’hobby del sonetto. Era stata la madre, in tenera età, a introdurlo al genere mostrandogli come scrivere materialmente un sonetto. Gli lesse una poesia da lei composta e a lui dedicata. Pochi giorni dopo, all’età di sette anni, Pasolini scrisse il suo primo componimento poetico: un sonetto, appunto. Il canzoniere dedicato a Ninetto non nasce, però, solo dalla familiarità del poeta con il genere, né è dettato unicamente dalla tematica amorosa.
Credo che nasca soprattutto, come esplica ironicamente il titolo, da una necessità: quella di arginare il dolore, la disperazione folle di cui il poeta cadde preda in seguito al comportamento dell’amato. Questo genere così equilibrato è la cornice scelta dal poeta per opporre la razionalità al caos dei sentimenti. E mai, mai scelta fu più oculata e, allo stesso tempo, istintivamente necessaria. Il grido di Pasolini è straziante, eppure egli non cessa di analizzare non solo la situazione, ma soprattutto, com’era uso, se stesso e i propri sentimenti; si affanna ad aggrapparsi a una spiegazione, a opporsi all’irrefrenabile caduta nell’inferno emotivo in cui è piombato.
Niente di nuovo sotto il sole, perché chi conosce Pasolini sa che questa è l’operazione poetica di una vita intera. Una vita vissuta nel disperato tentativo di essere fuoco che brucia per opporre l’amore all’indifferenza del potere, l’ordine al caos.  Il punto è che il dolore strazia lo spirito analitico del poeta, il quale resiste in virtù di un disperato amore materno: quello per il sonetto, per la parola poetica, che è creazione, trasformazione, rinascita oppositiva. Eros e Thanatos lottano in questi versi con una grazia inaudita, con una veemenza pari solo al dolore. O all’amore.

Glenda Dollo

C’era nel mondo – nessuno lo sapeva –
qualcosa che non aveva prezzo, 
ed era unico: non c’era codice né Chiesa
che lo classificasse. Era nel mezzo
della vita e, per confrontarsi, non aveva
che se stesso. Non ebbe, per un pezzo
nemmeno senso: poi riempì l’intera
mia realtà. Era la tua gaiezza.
Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente; te n’è rimasto
un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto.

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