La musica scandalosa e rivoluzionaria del cosmo

Seggo la notte è un frammento tratto da La ginestra di Leopardi. È il mio verso preferito in assoluto non solo del componimento, né di Leopardi, ma della letteratura in generale.
Un verso stringato, di una potenza inaudita che trasporta in una dimensione di attesa e solitudine, di isolamento cosmico. Il poeta sta sulla mesta landa del flutto indurato del Vesuvio e descrive il fiammeggiare delle stelle e un cielo che noi possiamo solo immaginare.
Sedere la notte significa innanzitutto smemorare, lasciarsi abbracciare dall’oscurità, che è la cuna del sogno. Nella modernità, purtroppo, abbiamo perduto la vista del tappeto celeste trapuntato di mondi lontani, galassie infinite, nebulose e costellazioni. Un prato cosmico che restituiva la dimensione di transitorietà e infinito tipici del nostro essere al mondo.
Sedere la notte come su un trono, come se fossimo i signori, gli eredi e i beneficiari unici dell’immensità spaziale e temporale. Il senso di finitezza annega nel tempo cosmico, nel farsi e disfarsi della materia e degli elementi. La relatività dell’essere è scandita dalla vita universale che procede inclusiva, maestosa e terribile nel suo fascino gassoso e infuocato di stelle che bruciano, implodono, di pianeti che si formano per troppo repentino scorrere di materia variegata e instabile nel suo folle fluire nello spazio aereo, temperature proibitive, ghiaccio e fuoco. Il cosmo è il mistero che da sempre l’uomo ha cercato di decifrare, ha declinato in mito, in storie, in cosmogonie immaginifiche che motivano l’origine della vita, del tempo, del  transitorio essere al mondo.
Sedere la notte sulla pietra vulcanica, che fu l’effluvio infuocato del vulcano sterminatore, senza i cui gas non si sarebbe formata l’atmosfera come noi la conosciamo, senza cui la vita su questo pianeta non sarebbe stata possibile, significa porsi in ascolto sul limine della conoscenza, il limine della stabilità, il limine della vita. La notte, questo mistero buio cui opponiamo il sonno, il sogno, immagini fantasmagoriche della realtà da cui ogni giorno, per qualche ora, pare ci distacchiamo, è probabilmente il canale privilegiato per una comunicazione universale secondo un codice altro, profondo, archetipico. E allora sedere la notte significa anche vegliare cercando di immergersi in tale comunicazione, nel flusso del cosmo. Diceva Whitman che se è vero che le stelle quando muoiono solo mutano forma, morire è grande come vivere.

In un’epoca tecnologica in cui la ricerca scientifica ogni giorno ci illumina svelando qualche mistero dell’universo cui partecipiamo ormai passivamente, sedere la notte significa opporsi alla violenza di una luce la cui intensità artificiale ci priva del legame con una metà della vita trascorsa al buio, tenendo gli occhi chiusi. Non solo concretamente, nel sonno appunto, ma anche metaforicamente, nel cielo notturno di cui abbiamo cancellato la magnificenza, il fascino e il mistero. Non ci interroghiamo più sul nostro posto nell’infinito movimento cosmico secondo le modalità che la vita ci ha consegnato: l’immaginazione, il sogno, la percezione. Deleghiamo la scienza come unico strumento in grado di decifrare i misteri, dimenticando che non si tratta che di uno dei possibili linguaggi che siamo in grado di parlare. La psicologia ha depauperato la ricchezza riposta nell’inconscio, legando gli archetipi a una dimensione umana, troppo umana.
Resta la letteratura, non solo come possibilità di immaginare al di là di ogni limite e confine, ma anche quale testimonianza di una vita vissuta senza gli agi moderni, che paghiamo a caro prezzo e che privano l’essere umano di una parte profonda della sua natura: quella universale, cosmica. 
Resta la musica, non quella dei talent, non le canzonette prive di poesia di cui il mercato ci ha sommersi, ma quella rivoluzionaria, scandalosa, che è pura energia in divenire che ci sensibilizza e acuisce le nostre percezioni.

Lo spettro del visibile corrisponde a una piccolissima porzione di onde elettromagnetiche: siamo praticamente ciechi. Eppure abbiamo fatto dell’occhio umano il signore della percezione. Chiudiamo gli occhi per metà della vita, sperimentiamo sensazioni ed emozioni intensissime e uniche, immaginiamo, vediamo nel sogno, sentiamo la musica, ascoltiamo le voci, ciascuno ne possiede una unica, abbiamo spesso la pelle d’oca, sorridiamo, ci si illuminano gli occhi ormai stanchi di questa quotidiana routine nel grigiore di palazzacci… Possediamo una ricchezza infinita che resta sopita in primo luogo perché non impariamo più. Conosciamo sì, siamo pieni di nozioni ereditate dal sistema scolastico, dal sistema istituzionale, dalla codificazione dell’arte secondo il gusto moderno, ma non sperimentiamo come accadeva un tempo. Diamo colpa alla corruzione del sistema politico se produciamo orrori, sia dal punto di vista sociale e antropologico che da quello artistico e architettonico. La storia può essere una prigione. L’ideologia può essere una prigione. Non ci poniamo dal punto di vista della globalità, dal punto di vista dell’evoluzione della nostra specie.  Soprattutto, nulla più ci insegna la notte, una pura parentesi di riposo dalle fatiche dal giorno, in cui lavoriamo, consumiamo, lavoriamo per consumare.

Secol superbo e sciocco tuonava Leopardi ne La ginestra. Ci hanno insegnato a contestualizzare tutto, privando spesso la letteratura e la sensibilità dei suoi autori della portata universale di cui sono depositari. Ma davvero non riusciamo a leggere la nostra epoca come una bretella scomposta e impazzita del Positivismo ottocentesco? Davvero non ci sentiamo responsabili dell’ottusità di cui Leopardi taccia i suoi contemporanei? Davvero crediamo di aver raggiunto il massimo dell’evoluzione possibile? Dove sono i frutti di cotanto splendore? Io vedo baraccopoli, morti in mare, zattere, spazzatura, distruzione, incuria, indifferenza. Viviamo slegati dal passato e dal futuro, in un infinito presente di veglia e riposo. Chiamiamo evoluzione i passi indietro che abbiamo compiuto.
Siamo sopravvissuti noi che speriamo ancora, ci interroghiamo ancora, ci meravigliamo ancora, leggiamo e ascoltiamo ancora. Siamo sopravvissuti noi che ancora arrossiamo, sorridiamo, sentiamo l’appartenenza a un progetto più grande, universale.
Spesso seggo la notte, quando leggo, suono, canto o scrivo. Non medito, vivo. Sediamo la notte, cerchiamola, sogniamo, immaginiamo. Siamo motori della creazione in atto.

Glenda Dollo

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