Quando John entrò in quella scuola per la prima volta, tale era la sua curiosità per il mondo fuori dai ristretti confini della sua casa che non aveva granché badato al cipiglio severo delle suore che lo stavano accogliendo. Era il primogenito di una numerosa famiglia cattolica di origini irlandesi e come tale gli toccava sperimentare per primo sulla propria pelle la rigorosa educazione che i genitori avevano in programma per lui e per gli altri loro figli. Non gli dispiaceva la vita nella piccola città del New England in cui era nato e cresciuto e in casa si stava bene, dopotutto proveniva da una ricca famiglia della buona borghesia e non gli era mai mancato nulla. Tuttavia, John aveva fretta di diventare adulto. Fin da piccolo aveva bruciato le tappe. Aveva appreso in fretta a leggere e scrivere, si era appassionato altrettanto presto allo studio della musica, era stato un brillante studente fin dai primi anni di scuola e aveva una propensione innata per qualsiasi disciplina sportiva. I genitori avevano già da tempo smesso di spronarlo a fare alcunché, John anticipava ogni loro più recondito desiderio e tutti invidiavano quel figlio eccezionale. Non era per attirare l’attenzione degli altri però che John si buttava in qualunque aspetto della vita con una passione senza pari, lo faceva solo e unicamente per se stesso. Per placare quell’ansia di esperienze a cui da ragazzo non sapeva dare un nome. Eppure, il sospetto che quella voracità dipendesse da un cattivo presagio che gravava sul suo futuro gli era passato spesso per la testa. Poi aveva scacciato quei pensieri ritenendoli sciocchi. Era giovane, curioso, vivo. Avrebbe visto il mondo e anche di più. La sicurezza con cui si muoveva in queste sue convinzioni lo rendeva invincibile. E senza ammetterlo, lo terrorizzava al tempo stesso. Soprattutto quando si accorgeva che quello sgradito presentimento stentava a lasciarlo del tutto in pace. A scuola dalle suore non era stato poi così male. Prima di entrare a Harvard, John aveva appreso tre lingue che senza saperlo gli sarebbero servite molto presto, era diventato un virtuoso del pianoforte e aveva letto ben più di quello che un ragazzo della sua età legge di solito nell’arco di una intera esistenza. La laurea fu per John una passeggiata. E senza accorgersene si ritrovò subito dietro a una cattedra in una delle più prestigiose scuole preparatorie del paese per l’accesso agli studi universitari. E ora? Tutto qui? John se lo ripeteva ogni mattino prima di entrare in aula. Aveva già scritto diversi romanzi e non essendo mai soddisfatto del risultato, li aveva accantonati tutti uno alla volta. Gli mancava il passo capitale, quello capace di fare da spartiacque nel corso di una vita, quello che non ti permette più di tornare indietro. Quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbor e il governo americano non poté più in alcun modo mantenersi neutrale, anche John fu chiamato a combattere. Partì per la guerra e gli fu subito chiaro che ci sarebbe stato un prima e un dopo. E di quest’ultimo percepiva con insistenza una breve vertiginosa durata.
John osservava con attenzione tutti quelli che si trovavano a passare nella Galleria Umberto I. Era arrivato a Napoli dopo un paio di anni trascorsi in Nordafrica tra le file dell’intelligence americana. Lì si era occupato di tenere sotto controllo i prigionieri di guerra. Leggeva la loro posta, carpiva i segreti che i soldati più ingenui si lasciavano scappare mentre scrivevano alle loro madri o alle fidanzate, oppure censurava interi passaggi che potevano rivelare la posizione delle truppe americane che avanzavano verso l’Italia. Era stanco di quella vita, John. Non vedeva l’ora di mettere piede in terra italiana. Ne conosceva la lingua e la cultura, ne era profondamente attratto. E quando si ritrovò nella Napoli non più occupata, si abbandonò a quei piaceri che a casa aveva tenuto ben chiusi a chiave in un cassetto per timore del giudizio spietato degli altri. La guerra lo aveva reso libero come mai alcuna esperienza precedente era riuscita a fare. Essere a stretto e quotidiano contatto con la morte gli aveva chiarito che niente di ciò che gli altri potevano pensare o non pensare di lui gli interessava più. Trascorreva le notti passando da un letto all’altro, gli piacevano gli uomini italiani, non disdegnava i suoi commilitoni. Ben presto si accorse che esisteva nell’esercito una sorta di piccola società segreta messa in piedi dagli omosessuali per accogliere quelli che come loro non potevano esprimersi a voce alta. E John ne entrò a far parte. La sua testa prendeva appunti di continuo, la Galleria Umberto I gli sembrava lo scenario privilegiato per la storia che aveva in mente. Il mondo intimo celato agli occhi altrui dei soldati e dei civili che transitavano sotto a quella galleria frequentandone i locali malmessi e caotici gli diede l’idea per un romanzo che avrebbe mostrato un lato sconosciuto di quel conflitto. Quello di chi tenta di sbarcare il lunario e di sopravvivere in un territorio ostile con o senza guerra. Narratore anonimo sarebbe stato un semplice soldato americano lontano da casa. A questo personaggio John avrebbe trasmesso tutta la sua esperienza. E il suo modo di sentire vulnerabile e salace a un tempo.
Si buttò in pieno nella stesura del romanzo una volta rientrato in patria alla fine della guerra. La cattedra che aveva lasciato prima di partire era stata conservata espressamente per lui. Troppo in gamba John per lasciarselo scappare. E con la gioia un po’ ansiosa di chi non era certo di vederlo tornare, il corpo docente lo riaccolse con tutti gli onori. Non potevano sapere che l’uomo che stavano riabbracciando non era più il ragazzo che avevano salutato quattro anni prima. John si ripresentò senza dar a vedere che era cambiato. Dentro di lui però qualcosa scalpitava, gli mancava l’aria, non si sentiva più libero. Trascorreva le notti a scrivere. E a bere molto, abitudine che aveva preso durante il periodo trascorso in Nordafrica. Mentre limava ogni parola in maniera febbrile, la mente di John non smetteva di cercare una scappatoia alla gabbia nella quale si era ricacciato suo malgrado. Quando il romanzo fu ultimato, un senso di pace mai avvertito prima lo invase da capo a piedi e capì che quella storia non assomigliava a nessun’altra tra quelle partorite da chi era sopravvissuto alla carneficina che era stata la Seconda guerra mondiale. Eccola, la via di fuga! E con la convinzione che quel libro gli avrebbe restituito la libertà perduta, John cominciò a inviarlo agli editori mettendosi in attesa di una risposta affermativa. Ci volle un anno e passa di rifiuti marcati da una malcelata ostilità prima che un editore armato di coraggio accettasse quel romanzo così personale. Era da poco cominciata l’estate del 1947, The Gallery campeggiava in bella mostra in ogni libreria del paese e in brevissimo tempo diventò un autentico best seller. Lo stesso John fu frastornato da una simile reazione. Certo, la sua famiglia non la prese nel migliore dei modi e non mancarono le stroncature puritane. Le invidie di certi scrittori maturi poi non furono nascoste. I lettori però sembravano ammaliati da quella storia in cui la guerra non veniva mai mostrata sotto i riflettori ma nelle conseguenze terribili sugli animi di chi la combatteva e la subiva. C’era poi quel sentire il conflitto come tregua da una vita sociale troppo rigida, a volte più cruda nei dolori che infliggeva ai singoli del conflitto stesso. Era ciò che John aveva sperimentato, era quello da cui anelava scappare ora che il clamoroso successo di quel libro glielo avrebbe permesso. Diede le dimissioni e partì. Sarebbe tornato in Italia, a Firenze questa volta. Avrebbe continuato a scrivere. Sarebbe stato di nuovo un uomo padrone di vivere e di amare chi gli pareva. Libero ormai da un pezzo anche da quel giovanile presentimento di una fine precoce, forse sentendosi immortale per essere sopravvissuto a una terribile guerra, forse in preda a un malsano delirio di onnipotenza seguito alla popolarità come scrittore, John si buttò a capofitto in un delirio senza fine di alcol e scrittura. Finché un caldo mattino di agosto non si risvegliò più.