In un mite ottobre di qualche anno fa, un professore di filosofia disse che i filosofi non dovrebbero scrivere romanzi, perché i risultati potrebbero essere davvero pessimi. Pronunciò queste parole con fare beffardo e ironico, compiaciuto della propria battuta.
Quel professore si guardò intorno cercando consenso tra gli stimati colleghi, i quali, in nome di una pacifica convivenza, decisero di sorridere e annuire. Chi sa cosa stavano pensando in quel preciso momento; quanti nomi affioravano sul limitare della loro memoria e quante parole, lette magari a lume di candele, ritornavano sulle loro labbra, strozzate dal perbenismo e dal quieto vivere.
Letteratura e filosofia. Un connubio strano, che a un filosofo analitico potrebbe apparire perfino dannoso. Ricordo un collega che, riferendosi sempre allo stesso autore che il professore aveva in mente quando pronunciò quella battuta, disse che la sua sembrava più letteratura che filosofia. Che strani questi filosofi. Giocano con le parole, decostruiscono i concetti ma rifiutano la caratteristica più propria, forse, dell’uomo: la narrazione.
Affrontiamo una giornata difficile. Tornando a casa incontriamo un amico: gli chiediamo come sta, che cosa combina in questo periodo. Ci si racconta. Apriamo un ponte verso l’altro grazie alle parole che ingenuamente pronunciamo. Certo, scrivere un racconto è ben altra cosa: ci vuole una trama, dei personaggi, coerenza e un pizzico di verosimiglianza. Eppure, come possiamo dire che Kafka non stia facendo filosofia e la Fenomenologia dello spirito di Hegel non sia un romanzo di formazione?
Di filosofi romanzieri ce ne sono stati: il più conosciuto e influente, Platone, ha fondato una disciplina sul racconto e sulla narrazione, con i suoi miti: Gige e l’anello invisibile; la biga alata e i suoi cavalli; l’indimenticata caverna in cui le ombre vengono prese per vere mentre non sono altro che illusioni; Er e il fiume Lete, che permette a ciascuno di obliare l’esistenza precedente.
Ho sempre preferito leggere romanzi piuttosto che immergermi nei saggi. Con un amico, a Napoli, ho discusso della crisi della filosofia e la domanda che ci ponemmo fu: non si potrebbe attingere da altro? Alla letteratura o alla pittura? L’arte permette di immaginare scenari che la filosofia, chiusa nella sua argomentazione logica, non può contenere. Non conosco miglior modo per spiegare la desolazione dell’uomo moderno se non attraverso i quadri di Edward Hopper; così come non potrei descrivere cosa sia l’angoscia se non immergendomi nelle pagine di 1984 di Orwell o nelle ultime ore di Edgardo Limentani ne L’airone di Bassani.
Ogni tanto ripenso all’affermazione di quel professore. Il filosofo in questione provò a scrivere due romanzi, Eros o Triste Opulenza e La Signora del Wepler, senza gran successo. Emmanuel Levinas però ha sempre tentato di dare poeticità alla parola, risultando spesso difficile da leggere. Un altro professore, saggiamente, disse: “Levinas va letto senza cercare di comprendere tutte le parole. Alla fine, riuscirete, tuttavia, ad afferrarne il senso”. La poesia funziona più o meno così. Forse dovremmo ritornare alla preziosa lezione degli antichi, di Platone, che con maestria ha saputo cogliere una grande verità: è solo nella narrazione che i concetti possono essere dispiegati con la potenza della vita, la quale risulta spesso arida nelle strette maglie della fredda logica.