Un paese ci vuole

La nonna di un ragazzo al quale faccio ripetizioni mi offre un dolce: “È del mio paese”, mi dice con una punta di orgoglio. Sono quelli che dalle sue parti vengono chiamati “strufoli” ma che altrove sono dette “castagnole”. Pasta fritta con zucchero, solo che nella sua ricetta l’impasto ha anche del formaggio. Il ragazzo ne mangia più di uno e chiede, a bocca piena: “Perché, abbiamo un paese noi?”. “Certo,” risponde la nonna guardando con amore il nipote, “ognuno ha un paese”. Appoggiato a un mobile sotto la televisione, che manda in onda La casa nella prateria chiedo al ragazzo se lui ha un paese. “Sì che ce l’ho, è B.”.
La forza con cui me lo dice mi sorprende, perché quello che lui chiama paese, in realtà è solo una frazione di una città molto più grande ma che rappresenta ai suoi occhi tutto il mondo. Prima della nonna, questa frase era stata pronunciata da un grande scrittore, Cesare Pavese – forse è stata l’aria piemontese che la donna ha respirato per vent’anni ad averle trasmesso questo pensiero o semplicemente la saggezza popolare.

“Un paese ci vuole” scriveva il poeta e narratore di Santo Stefano Belbo in La luna e i falò. Lo capiamo soprattutto oggi, nell’era dei non-luoghi come li ha definiti Marc Augé: aeroporti, stazioni, autogrill. Sono luoghi impersonali, uguali dappertutto. Mentre il paese è diverso: ci sono gli affetti, delle dinamiche ben precise, i ricordi, delle radici che permettono a una pianta di crescere sana – anche se il travaso, spesso, permette di sopravvivere quando la terra diviene poca.
Un paese ci vuole. Pensando alla letteratura nostrana, un nome mi balza alla mente quasi subito. Oltre a Pavese, c’è un certo autore ferrarese, sebbene sia nato a Bologna, che ha scritto una grande opera intitolata, nel suo complesso, Il romanzo di Ferrara. Giorgio Bassani è andato via dalla sua città a ventisette anni, nel 1943, in un periodo dove cambiare spesso voleva dire salvarsi. Ha vissuto a Roma, ha insegnato a Napoli, insieme a un altro grande caratterista della propria terra, Vasco Pratolini, che raccontò del diventare adulti in un romanzo dal titolo emblematico Il Quartiere.
Bassani ha cantato la sua città, inventando nomi e storie, mescolandole tra di loro tanto da farle sembrare vere. Visitando la bellissima città estense ho provato del dolore fisico, viscerale a sapere che il giardino dei Finzi-Contini non esiste. Così, come non hanno mai visto la luce Micòl, Alberto, Bruno Lattes e questo rende il mondo un posto peggiore, perché ci mette davanti al fatto che la letteratura inventa e gioca con le nostre vite.

A differenza del ragazzo, in adolescenza odiavo il mio paese. Non riuscivo a vederne la bellezza, tant’è che me ne sono andato. E mi è mancato, così come mi manca la città in cui ho studiato. Ora sono altrove, lontano da entrambi e invidio chi sente ancora le proprie radici ben salde e si lascia nutrire da esse: forse, a loro, non è giusto insegnare che c’è un mondo là fuori. O forse sì, come mi insegna la saggia nonna che al suo paese non torna da qualche anno ma che lo porta con sé.

Edoardo Poli

Rispondi