Lenore Kandel, o del fallimento di una storia

Prima massacrarono gli angeli legandogli con corde le esili gambe bianche e aprendogli la gola di seta con gelidi coltelli. Morirono battendo le ali come polli e il loro sangue immortale bagnò la terra in fiamme, noi guardavamo dal sottosuolo dalle lapidi, le cripte mordendoci le dita ossute e rabbrividendo nei nostri sudari macchiati di piscio. I serafini e i cherubini non ci sono più, li hanno mangiati e hanno succhiato il midollo dalle loro ossa spezzate, si sono puliti il sedere con piume d’angelo e ora percorrono le strade disselciate con occhi come brace.

Erano quarant’anni che viveva in quello stesso appartamento, fin dai tempi degli Hell’s Angels, fin dai tempi del suo ultimo grande amore, The Sweet William. Con lui aveva scorrazzato in lungo e il largo per la California sulla sua Harley per quei due anni che era durato il loro amore. Qualcuno telefonava ancora come i primi tempi del suo “isolamento” per chiederle un colloquio, un’intervista; qualcuno voleva ancora conoscerla. Venivano dalla Germania, dalla Scandinavia per intervistarla. Una TV francese le aveva anche proposto di girare un documentario sulla sua vita. Ma lei era molto parca e selettiva in quanto a gente da frequentare, con chi e come passare il proprio tempo non era mai una scelta casuale. Non so cosa sia la solitudine, ripeteva alle amiche del tempo passato, con cui prendeva a volte il tè in casa sua. E non lo diceva mica per auto convincersene, lo diceva per giustificarsi del fatto che non rispondeva alle lettere dei giornalisti e studiosi della Love Generation; non rispondeva a nessuno di loro se le mandavano delle lettere. Se le telefonavano, rispondeva sempre, ma bisognava insistere molto per riuscire a strapparle un appuntamento. A quel punto quel giornalista o quella giornalista diventavano suoi amici del cuore, forse perché avevano superato la prova di pazientare con lei, di continuare a telefonarle ma senza insistere mai troppo, anzi vergognandosi e scusandosi di importunarla continuamente. Ecco, diciamo che Lenore non voleva essere importunata, voleva starsene in pace, quella pace interiore che era stata la caratteristica principale di tutta la sua vita, prima e dopo l’incidente, che era sempre stata la sua forza. Lenore non aveva mai dovuto combattere per avere la pace interiore, lei ce l’aveva e basta. Un bel vantaggio, non c’è che dire; lei diceva che la sua stabilità interiore le veniva da quel dialogo con se stessa che aveva coltivato fin da piccola. Non ho mai agito di impulso nella mia vita, ma con entusiasmo sì, diceva. L’importante, diceva, è essere consapevoli della situazione in cui ci troviamo, e questo serve non per rifiutarla e scappare, ma al contrario per viverla, ma viverla consapevolmente e pienamente. E questo criterio lo applicava soprattutto nelle sue storie d’amore. Lei non si aspettava che le persone fossero diverse da come erano. Lei cercava sempre la verità, ma pur vedendo i limiti, i difetti, gli errori dei suoi uomini, non per questo li amava meno, semplicemente li amava per quello che erano, senza che questo scalfisse minimamente la sua solidità e pace interiore. Quest’ultima si nutriva di consapevolezza ed equilibrio, quello che tutti, prima e dopo l’incidente, prima e dopo la sua morte le riconoscevano come caratteristica principale, oltre alla sua straordinaria e originale bellezza; questo suo equilibrio si basava sull’essere sempre se stessa. Il fatto è che Lenore non aveva paura. Per questo non si era sottratta alle più disparate esperienze di vita: insegnante, ballerina, guidatrice di bus scolastici, astrologa, e naturalmente poetessa raffinata e originale. Sono un Fuzzy tornado diceva di se stessa. L’incidente che l’aveva costretta praticamente in casa negli ultimi quarant’anni aveva significato per lei vivere in un contesto diverso la propria vita. Ma la sua mente? La sua mente era rimasta equilibrata, ben piantata come un totem nella terra, o era andata in mille spaventosi e disperati pezzi?

Questo è un tentativo, che non può riuscire, questo è il racconto di un tentativo fallito, cioè sapere delle cose della vita di un’altra persona, sapere le sue parole, quelle di tutti i giorni e cioè come diceva lei “oggi cosa facciamo da mangiare?”;  ho come l’impressione che lei in quanto divinità dakini dallo sguardo emblematico antico e magico non mangiasse, non avesse questo bisogno, ma vivesse di sguardi e mi immagino che le uniche parole che abbia mai pronunciato siano quelle della sua poesia. Questo mi immagino e fantastico. Ma naturalmente lei avrà mangiato, bevuto, fumato. Sicuramente ha fatto l’amore e lo ha analizzato; se lo è raccontato molte volte il suo fare l’amore, avrà ascoltato ogni piccolo e grande segnale, risposta, reazione del suo corpo inscindibile dalla sua anima. Quello che amo di lei è praticamente tutto, il suo viso, il suo corpo, le sue parole, il suo modo di stare al mondo nel mondo a favore del mondo, mondo degli uomini, mondo delle donne e dei bambini. La sua poesia è stata ed è ancora al servizio della vita, quindi è strano che io non riesca ad immaginarmela nelle parole di tutti i giorni, come se lei dovesse sempre stare su un gradino sopra gli altri. Ma questo è lo stesso un tentativo fallito perché nessuno ha voluto e vuole raccontarmi di lei, dei suoi giorni, pensieri, parole, dei suoi amori, scelte giuste, scelte sbagliate…ma perché sbagliate? Lei era forse come noi che sbagliamo? Oppure Lenore era la rappresentazione di un progetto spirituale e superiore, un progetto religioso, un omaggio a una qualche divinità femminile a cui lei era devota? Potrebbe anche essere, non me ne meraviglierei, sapete non me ne meraviglierei per niente; penso che Lenore  potrebbe essere stata devota a una qualche divinità femminile di quelle che chiamava durante le sue sedute di divinazione che non so se faceva… non so nulla di lei, dei suoi segreti, della sua misteriosa vita mentale… nessuno ha voluto sbilanciarsi con me… né amici o conoscenti… ho solo piccolissimi frammenti, spizzichi, attimi di vita raccontata a cui si è stati per un minuto o cinque minuti testimoni. Ma questo non mi basta per scrivere una storia reale che sia un omaggio a Lenore e così mi tocca scrivere il fallimento di una storia che è l’unica cosa che da scrittore a scrittore le posso offrire, di cui posso, voglio, devo farle omaggio; e così farla rivivere intorno a noi come se la sua emanazione, il suo fantasma reale e immaginario fosse di nuovo qui a farci compagnia, a darci forza, coraggio in questi nostri giorni bui.

Ci sono scrittori che amo come parenti, Lenore è una di loro.

Quando eri triste, quando eri triste, quando eri triste cosa facevi? Ti mettevi a scrivere utilizzando la tua tristezza come faccio io a volte, oppure dormivi, chiamavi al telefono qualcuno che ti venisse a trovare oppure tu Lenore non eri mai triste, forse la tristezza non era nelle tue corde, nel tuo carattere. Ma insomma essere triste è pur essere qualcosa, è una spinta la tristezza come ogni altro sentimento, sono spinte i sentimenti per agire. Penso che il tuo unico vero agire fosse la scrittura, l’unico agire di uno scrittore è scrivere, il non scrivere è un intervallo tra uno scrivere e l’altro.

Tornando alla tristezza, in tutti quegli anni passati in casa quante volte sei stata triste; nei tuoi 146.000 giorni dopo l’incidente che ti è capitato quante volte sei stata triste? E quante nei 134.000 giorni della tua vita precedente all’incidente? Non è curioso, profetico, impressionante e qualcosa vorrà pur dire, se l’incidente di moto che ti ha rovinato la schiena è capitato a metà della tua vita terrena? L’incidente è stato un avvertimento, un segno. Con l’incidente hai toccato il fondo di una vita che non ti piaceva oppure ti piaceva moltissimo, e i 146.000 giorni successivi sono stati comunque belli da vivere come quelli precedenti, oppure è stata la tristezza il tuo sentimento dominante? Lo voglio sapere Lenore, lo voglio sapere, lo devo sapere, perché la risposta a questa domanda è una conferma dell’idea che mi sono fatta di te. Oppure la disconferma. E allora il romanzo su di te non vale la pena di essere scritto, perché deve essere la tua epopea questo romanzo, una specie di poema cavalleresco del XXI secolo, in cui l’eroina combatte il drago e lo uccide. Anzi non deve neanche combatterlo, perché il drago dentro e davanti a Lenore non c’è. Non c’è nemico, non c’è avversario, mostro, divinità irata. Perché Lenore è L’eroe senza macchia e senza paura. È la dakini, piccola divinità dai capelli lunghi e seni scoperti che a Big Sur girava giovane, bella e innocente tra gli amici come tra la natura selvaggia del mare e dei boschi. Che può mai fare alla piccola divinità senza macchia e senza paura non poter più correre sulla spiaggia o sulla Harley con Bill? Oppure anche le divinità del XXI secolo erano tristi come qualunque essere vivente? Adesso nel nostro nuovo millennio il problema non si pone più. Quel mondo innocente e selvaggio non esiste più. Qualcuno è arrivato. Qualcosa è accaduto. La tua profezia si è avverata.

Dianella Bardelli

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