La visione ornitocentrica di Umberto Saba

Leggere due delle ultime raccolte di Umberto Saba – Uccelli del 1948 e Quasi un racconto del 1951– fa male. Spesso ce lo raffiguriamo con la coppola e la pipa, proprio come dovrebbe essere un poeta. Ma su Youtube c’è un video che risale al 1956, in cui l’autore triestino legge il proprio Canzoniere. Potrebbe essere una persona qualsiasi: vecchio, stanco e malato. Potrebbe essere mio nonno, anzi l’unione dei miei due nonni: uno faceva di cognome Poli e l’altro di nome Umberto. Che strano il destino.
Proprio così lo immagino, mentre dà da mangiare ai suoi preziosi canarini, a cui dedica dieci poesie. Lo penso svegliarsi presto, all’alba – perché si sa che i vecchi dormono poco –, turbato dall’esistenza di questi piccoli esseri che, soli, gli fanno compagnia. La vita per Saba è un dono agli altri, ma queste creature sembrano non accontentarsi mai delle sue cure. Eppure, non potrebbe vivere senza. Tutto il mondo come ci tiene a scrivere si basa sull’amicizia, sull’affetto disinteressato.

Perché, gentile creatura, mi strazi?
Hai tutto, e il tuo richiamo è pianto. Hai gabbia
spaziosa e pulita, che governo
io stesso all’alba, ogni mattina.

Non deve essere stato facile aver sofferto tutta la vita di depressione – nevrastenia dice lui –, sentire il tempo che vuotamente passa per non tornare; vedere le proprie forze abbandonare il corpo per non sorreggerlo più e pensare che anche la tanto agognata vecchiaia, quella in cui molte speranze vennero riposte, non ha soddisfatto pienamente le aspettative. Ecco, quindi, che vedo Saba – che sempre per uno scherzo della scienza dei nomi potrebbe essere mio figlio, dato che il padre si chiamava Ugo Edoardo Poli – riposarsi al sole, in una fredda giornata di inverno, mentre fuori gli altri si affannano. Lo vedo, dietro i suoi occhi ingigantiti buffamente dalle lenti degli occhiali, leggere le parole che con dita affusolate ha scritto e dedicato alla vita:

La vita,
lei che tanti giocattoli mi ha tolto,
mi rende al fine il più innocente: in gabbia
nato un uccello che in gabbia non soffre.
Puoi d’un vecchio sorridere. Puoi anche,
se più ti piace, perdonargli.

Gli uccelli – da buon esperto, il poeta nomina il rosignuolo, il canarino, il merlo, il pettirosso, ecc. – non rappresentano solo il rimedio contro la malattia e la solitudine, ma sono lì anche come pietra di paragone con il resto del genere umano. Come se Saba vedesse il mondo attraverso gli occhi di un uccello, un punto di vista ornitocentrico, che permette così di giudicare gli uomini in modo eccentrico. Il poeta ritrae spesso gli altri – per esempio il suo collega Carletto – e anche sé stesso come chiusi in gabbia:

[…] Immaginava,
con tutto il mondo in miniatura, chiudere
suo padre in una gabbia. Il vino e i cibi
erano buoni, anzi eccellenti. In cambio
sua madre o lei tra le sbarre carpivano
il mio lavoro d’ogni giorno in vari
multicolori bei fogli volanti.

Leggere Saba spiazza perché traspare un tale “male di vivere” – espressione di un suo amico, anch’egli poeta – che non ti aspetteresti da una scrittura così leggera e candida, sincera quasi. Fa male pensare a un possibile nonno poeta o a un figlio che scrive e soffre anche per causa tua – Saba non amava particolarmente il padre. Immaginiamo gli eroi della letteratura forti anche nel dolore ma questo, almeno qui, non accade. Si è nella fragilità dichiarata e vissuta, sentita.
Vedo, infine, quest’uomo esile, trascinarsi verso le gabbie a sera e salutare a uno a uno i suoi compagni. Parlare con loro d’amore, rimproverarli perché hanno fatto chiasso e sentirsi in colpa perché non ha trovato una buona compagna al canarino. Lo vedo spegnere le luci di casa e dirigersi a letto, con gli occhi e l’anima di “un povero cane randagio”.

Edoardo Poli

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