Nel Monastero del Corpus Domini di Ferrara, la casa delle Clarisse Francescane, nel mese di maggio del 1622, Camilla Faà Gonzaga decise di prendere i voti. La sua storia, però, non ebbe inizio nel 1622, ma qualche anno prima, quando il suo nome era Camilla Faà di Bruno, figlia del consigliere di corte Arduino Faà, ed era una damigella alla Corte di Mantova. “Ho sacrificato la mia libertà” scriverà Camilla, “altro non mi resta che la vita”. Lontano dalla Chiesa, avrebbe trovato la forza di reagire e affrontare i raggiri burocratici e gli inganni sentimentali che la colpirono così forte da lasciarla stordita e confusa al punto di rifugiarsi in un mondo cui lei stessa non era mai stata incline?
Nel ‘600, la voce femminile in una letteratura in prevalenza maschile, soprattutto in ambito autobiografico, non era abbastanza forte da supportare casi isolati come quello di Camilla. Dopo l’avvento delle opere delle Donne Umaniste, che in due secoli avevano già dato dimostrazione di qualità forse superiore a quelle degli autori uomini, le opere a firma di donne rimanevano comunque esigue. Camilla raccontò tutto quello che le era accaduto in un racconto di poche pagine, ma una forza dirompente, di un incredibile valore precursore.
L’unica edizione integrale del manoscritto è inserita in appendice a un manuale di Fernanda Sorbelli Bonfà, del 1918, secondo la quale la storia di Camilla non era poi una grossa novità né in campo letterario né nelle rappresentazioni artistiche, giacché “il suo nome ricorre in quasi tutte le storie che narrano le vicende dei Ducati di Mantova e del Monferrato”. Eppure, la storia di Camilla, scrive Sorbelli Bonfà, “è più tragica” di quella ufficiale.
Ma qual è la storia ufficiale? Qual è la differenza tra la storia dei libri di scuola e il racconto scritto dai protagonisti? In altri termini, qual è o che cos’è la verità? E mi chiedo ancora: come è possibile che certe versioni della verità, come quella di Camilla, siano rimaste segrete tra le mura di un monastero per più di tre secoli? A Sorbelli Bonfà, nonostante il tono quasi scettico, dobbiamo riconoscere il merito di aver pubblicato integralmente (seppure in appendice al suo testo) il manoscritto ignorato dalla critica. Giuseppe Giorcelli, nel 1895, aveva fatto un primo tentativo, senza però citare la fonte. E Gianbattista Intra, nel 1881, aveva scritto un romanzo a vocazione storica intitolato La bella Ardizzina, ma anche questa volta, al merito dell’autrice, nessun accenno.
Altri hanno analizzato la differenza tra storia pubblica e privata, partendo proprio dal luogo in cui il racconto di Camilla è stato scritto. Graziella Parati, ad esempio, ha ricercato la rappresentazione dell’Io nelle parole di Camilla e ha dimostrato, con il suo Public History – Private Stories, che il ruolo marginale della donna nella storia degli uomini sarà una delle cause del sacrificio di Camilla. “Camilla” scrive Parati, “è cosciente che la posizione della donna sia ben al di fuori della sfera pubblica”. Tuttavia, con il suo racconto, e soprattutto firmandolo con il suo secondo cognome, quello dei Gonzaga, acquisito dopo le nozze con il duca, Camilla compirà un vero e proprio “atto di trasgressione”. Entrerà nella sfera pubblica pur rimanendo rinchiusa in quella privata, quasi segreta, del monastero. Riuscirà, in altre parole, a fornire al mondo una documentazione storica della vicenda.
La vicenda storica
Camilla Faà Gonzaga, una damigella alla Corte del Duca di Mantova e Monferrato, visse per quarant’anni in un monastero con la sola libertà di passeggiare nel matroneo. Tutto ebbe inizio quando il duca, Ferdinando Gonzaga, si invaghì di Camilla, una ragazza di “rara pulchritudine”. Nonostante fosse in una condizione di sudditanza, la giovane Camilla si rifiutò di essere l’amante del duca e pretese di diventare sua moglie. I due si sposeranno in segreto, il duca otterrà quel che voleva e, infine, il matrimonio risulterà non valido e Camilla sarà costretta a scegliere tra un nuovo marito (che neanche conosceva) o la vita monacale.
Ribellarsi alle regole non scritte di una società patriarcale che vedeva le donne come un oggetto di compravendita per scambi di doti tra famiglie, poteva avere conseguenze gravi. Bisognava mettere a tacere quelle come Camilla, o si rischiava di sconvolgere un sistema basato sul silenzio. Soprattutto perché Camilla diede alla luce un bambino, figlio del duca, figlio che, se fosse stato riconosciuto, sarebbe diventato l’unico erede. Eppure, privarla della parola in un certo senso, non bastò a nascondere la sua storia perché Camilla, oltre a essere una donna libera intrappolata in un’epoca di sottomissione e obbedienza, oltre a essere una donna distrutta, privata del suo bambino, fu anche una scrittrice.
Camilla avrebbe lasciato una testimonianza di ciò che era realmente accaduto alla Corte di Mantova, e per di più, avrebbe firmato la sua opera con il cognome acquisito nel 1616, all’atto del suo matrimonio, Gonzaga. Il manoscritto, intitolato Historia della Sig.ra Donna Camilla Faà Gonzaga, sarà il primo testo autobiografico in prosa scritto da una donna italiana. Assumerà pertanto un valore non solo storico – in quanto riporterà una versione dei fatti sconosciuta – ma anche letterario.
Il ruolo dell’isolamento
Graziella Parati afferma che, dopo essere passata attraverso vari ruoli, quello di figlia, di moglie, di amante, di madre e infine di monaca, tutti ruoli controllati dall’ “uomo pubblico” o dal “padrone” (il padre, il promesso sposo, il falso sposo, il figlio e infine il Cristo), Camilla si rifiuta di rimanere “inedita” e decide di “pubblicare la sua vita”.
Tutto ciò accade sotto l’influenza della superiora, sorella di suo padre, la quale la spingerà a liberarsi del peso del silenzio. E il monastero, finora vissuto come luogo di reclusione, di vergogna e oblio, diventa lo scrigno che custodirà questo tesoro letterario. Protetta dalle mura del monastero, Camilla troverà il coraggio di dire al mondo la verità. Racconterà del raggiro legale che il duca e i suoi collaboratori hanno messo in scena, del carattere debole del duca, del quale lei stessa “si burlava”. Parati sottolinea più volte l’importanza dell’emisfero privato per avvalorare proprio quello pubblico, in cui la rappresentazione di Camilla risulta comunque una rappresentazione falsa. “Scrivendo della sua vita” Camilla costruirà “un’identità romanzesca” e riuscirà a trasgredire agli ordini del duca; paradossalmente, all’interno del matroneum, scoprirà una sorta di “indipendenza marginale”.
Cos’altro ha concesso l’isolamento a un carattere forte e allo stesso tempo debole come quello di Camilla Faà Gonzaga? Camilla ritroverà in sé stessa il dono della scrittura, sarà capace di creare una nuova immagine di sé, una rappresentazione letteraria, un riflesso di quella reale. Il racconto è una testimonianza perché si basa non solo sui fatti ma sui sentimenti.
L’isolamento del matroneo ha concesso alla giovane novizia anche qualcos’altro: il diritto all’umorismo. Prendendo i voti, Camilla decide di farsi chiamare Suor Caterina, sceglierà il nome della sua rivale, Caterina De’ Medici, moglie (sterile) di Ferdinando. Una lezione per il debole duca e per la furba nobildonna che farà di tutto per cancellare la damigella e suo figlio come si cancella una pagina di storia. E un esempio per tutte le donne che un giorno si troveranno davanti alla scelta tra silenzio e verità.
Camilla sceglierà la verità e scriverà un memoir (un tipo di autorappresentazione diverso dall’autobiografia, perché la fabula non corrisponde all’intreccio degli avvenimenti, presentati secondo le esigenze dell’autrice). Sceglierà di essere monaca piuttosto che prostituta, cosciente che tutto è nato da un “capriccio” ed è finito in una “infelice tragedia”. Ancora, Camilla concluderà il suo resoconto con la parola “ignoranza”, una beffa per la sua rivale, tanto colta. Nonostante lo sfoggio di falsa modestia nelle battute finali del manoscritto, l’autrice conosce la forza del suo lavoro; sa che, a differenza di suo figlio, ucciso – si potrebbe dire – dalla cattiveria e dall’abbandono, questa storia avrà vita lunga, reclamerà anzi il suo posto nell’immortalità conferita alle grandi opere.
“Il 22 maggio 1622, scomparve dalla scena del mondo e le porte del Corpus Domini si chiusero per sempre per suor Caterina…” Lungo le arcate, Camilla passeggiava con il suo manoscritto stretto tra le mani, come se fosse il suo bambino, Giacinto, strappatole così subdolamente. Gli abiti che stava per indossare avrebbero nascosto soltanto il corpo della donna ma non le avrebbero impedito di evadere attraverso uno scritto, un oggetto sacro, che stava per venire alla luce. Nelle mura dei monasteri, in tutte le epoche, si sono consumate tragedie di giovani donne innamorate dell’uomo sbagliato, o che hanno capito prima delle loro contemporanee quanto potente e quanto incontrollabile potesse essere il potere delle parole.