Arcangelo Monteverdi, regista in cerca di se stesso

Quando Arcangelo Monteverdi aveva dieci anni, la Oldsmobile lanciò sul mercato la Super 88, una macchina con motore Rocket V8 da 5 L di cilindrata, un carburatore a quadruplo corpo e un propulsore da 160 CV di potenza. L’Industriale di Buffalora – così lo chiamavano con un po’ di disprezzo i genitori di Monteverdi – si era fatto arrivare una Super 88 dall’America. Quell’America che quando hai dieci anni anni sembra più un sogno che un paese.
Monteverdi la vedeva sempre parcheggiata in divieto di sosta di fronte al bar del centro. Era la macchina dei Grandi. Dei Ricchi. E mentre se ne stava lì, piccolo, in mezzo alla strada a fissarla, si ripromise che un giorno avrebbe avuto un’auto uguale e che con quell’auto sarebbe andato a trovarla ogni sera.
Ventisei anni dopo. Nei cinema di tutto il mondo uscì Monster, pellicola che i critici elessero subito come “nuovo caposaldo del genere horror-fantascientifico”.
Nel 1979 Monteverdi era diventato un adulto allampanato, con le tipiche occhiaie di chi passa le notti nei cinema d’essai. Aveva lasciato il paesino da un sacco di tempo. Durante gli studi alla Sperimentale di cinema era diventato amico con Carlo Cosmo che, al contrario di Monteverdi, era basso e tarchiato. Entrambi lavoravano a Cinecittà. Monteverdi come montatore, Cosmo come sceneggiatore.
I due erano andati a vedere Monster al cinema Adriano di Roma in un caldo pomeriggio di luglio. Benché fosse un bel film – Cosmo ne era addirittura entusiasta – Monteverdi faticava a concentrarsi. Aveva finito i soldi guadagnati montando l’ultimo Merola ed era, fondamentalmente, senza un soldo. Lo irritava non riuscire a concentrarsi sul film, perché lui era uno dei pochi veri cinefili.
Il vero cinefilo non è quello che conosce a memoria le filmografie o i nomi dei registi o ti snocciola tutte le pellicole appartenenti a questo o a quell’altro genere. Poco importa se quell’inquadratura è un primo piano o un primissimo piano. Quello che rende tale il vero cinefilo è la sofferenza. Lo star male in questo mondo complesso, strano, difficile, incomprensibile. In un cinema, il vero cinefilo lo si riconosce subito: è quello che sta seduto a guardare tutti i titoli di coda.
Un esempio di quanto Monteverdi fosse a poco agio in questo mondo era la storia del suo matrimonio, partito male e finito peggio. Mentre frequentava la Sperimentale, conobbe la ragazza che nell’arco di dieci anni sarebbe diventata la sua ex-moglie. La causa del divorzio fu semplice. Lei sentiva che il marito non l’amava e che forse non l’aveva mai amata. Aveva immaginato un amore lasciato a Buffalora, poi decise che non le importava più di tanto analizzare la situazione.
“Voglio il divorzio”, disse.
E Monteverdi accettò passivamente, perché sapeva che lei aveva ragione.

Uscendo dal cinema, Monteverdi vide un 24 fogli sulla casa di fronte. Era la locandina di Zombi 2, di Lucio Fulci. Stette a fissarla per un attimo. All’improvviso si illuminò. Forse aveva trovato il modo di fare qualche soldo.
“Ehi,” disse a Cosmo, “forse ho trovato il modo di fare un po’ di soldi. Ma dobbiamo fare in fretta”.
Sì, dovevano fare in fretta. Perché se quell’idea era venuta a lui, poteva venire a chiunque fosse nel giro. E la coppia doveva fare in modo di essere la prima a svilupparla.
Essendo persone che da tempo lavoravano a Cinecittà – e nel loro piccolo erano anche noti – Monteverdi e Cosmo non ebbero problemi a farsi ricevere da Mari e Ciprè, già produttori di Zombi 2.
Il loro ufficio era perennemente in penombra, saturo di fumo di sigaretta e ingombro di scartoffie. Cosmo improvvisò una trama e Monteverdi si propose come assistente alla regia – o produttore esecutivo o qualcosa del genere.
“L’idea non è male,” disse Cipré.
“Ma quello che voi due idrocefali non avete tenuto in considerazione,” continuò Mari, “è la fattibilità del progetto. C’è una cosa chiamata copyright, lo sapete?”
Monteverdi sorrise, era tutta la riunione che aspettava che qualcuno gli facesse notare la cosa.
“Ho fatto un giro di chiamate. Il nome “Monster”… nome, logo, tutto quanto… non è registrato. Quindi dobbiamo muoverci. Lo registriamo noi e giriamo un sequel.
Nella pausa che seguì Mari e Ciprè si guardarono. Poi firmarono cambiali ai due per un valore complessivo di 400 milioni di Lire. Monteverdi e Cosmo uscirono da Cinecittà letteralmente con una borsa piena di soldi. E con un appuntamento, quella sera stessa, con una giornalista di Variety.

La giornalista indossava un paio di occhiali di corno. Cosmo improvvisava. Stava ampliando sul momento la trama che aveva snocciolato quel pomeriggio a Mari e Ciprè.
“La storia… ah, abbiamo deciso di… cambiare l’ambientazione. Miley Rott ha ambientato il film nello spazio, noi abbiamo deciso di… ambientarlo in un altro… luogo inesplorato. Le… mh… profondità… marine. Le profondità marine”.
“Chi sarà il regista?”
Cosmo guardò in direzione di Monteverdi, che era al telefono dall’altra parte del bar. Stava parlando con Mario Bava.
“… Questo è Monster II. Ho bisogno di un regista. Ora. Subito. Sì o no?”
“Io ti voglio bene, Monteverdi”.
“Mi devi un sacco di favori”.
“Lo so”.
Cosmo vide Monteverdi tirare un pugno contro la parete.
“Come sarebbe a dire che non puoi? Non puoi o non vuoi?”
“Non posso. Dopodomani inizio le riprese di un altro film. Non posso tirarmi indietro, ho già speso l’anticipo”.
“E io che dico a Variety?”
“Perché non la fai tu, la regia? È un po’ che sei nel settore. Ormai dovresti sapere come si fa”.
Il tempo stringeva. Cosmo prese fiato.
“Mario…”
Monteverdi attaccò il telefono e disse un “no” categorico con le mani verso Cosmo. “Chi?” chiese lui con un movimento della testa. Monteverdi indicò ripetutamente se stesso.
“… Monteverdi. Ah! Arcangelo Monteverdi. Regista…” si schiarì la voce… “regista debuttante”.

Di solito Cosmo era una scheggia a scrivere. Aveva chiuso sceneggiature di tutto rispetto in una settimana. Film come La camorra chiama, la polizia risponde e Ore 7.15 attacco al potere. Saltava i pasti, non andava in bagno, praticamente non dormiva e quelle poche ore in cui si concedeva un pisolino, lo faceva con la faccia dentro la tastiera della Lexikon 82. Nel caso di Monster II – dal profondo degli abissi, la situazione era diversa. Ci sarebbe voluto un mese. Questo perché Cosmo frequentava una ragazza, una produttrice, che si arrabbiava se lavorava troppo. Questo non fece troppo piacere a Monteverdi, che aveva fretta di cominciare a girare. Quando si trattava di lavoro, Monteverdi stava via di casa anche per settimane. Partiva senza avvertire, il più delle volte. Quando Cosmo aveva bisogno di lui, lui c’era e adesso che lui aveva bisogno dell’amico, questo voleva stare con la sua ragazza.
“Non puoi estremizzare tutto, Monteverdi” gli aveva detto Cosmo. “Non tutti sono malati di lavoro come te”.
“Ma se fino a un mese fa eri tu a portarmi il caffè alle tre del mattino…”
“Monteverdi…”
“Io ho bisogno di incassare, lo capisci!”
Nonostante il centro di Roma fosse pieno di persone, Monteverdi si sentiva solo. Vagava senza meta. Qualcosa non andava, ma non sapeva cosa. Su Corso Casale Gente, angolo Viale Vivaldi, c’era una concessionaria della Oldsmobile. In vetrina c’era una Super 88 del 1952 in esposizione. Monteverdi stette a guardarla per un po’. E la macchina guardò lui. Poi entrò in concessionaria e la comprò senza pensarci due volte. Con i soldi della produzione.
Solo dopo averle fatto il pieno si era chiesto che diavolo stesse facendo. Mise a posto la pompa di benzina, si sedette al posto di guida, poggiò le mani al volante. Una piacevole scarica di adrenalina gli salì lungo la spina dorsale. L’odore degli interni in pelle, delle sigarette del precedente proprietario e della polvere gli ricordarono che quella era la macchina dei Grandi. Ingranò la prima e partì. In un minimarket comprò: una bottiglia di Fourth Jackass, quattro confezioni di pop-corn e una cartina stradale. Doveva tornare a Buffalora. Doveva andare da lei.

Dando una generosa sorsata al bourbon, Monteverdi salutò Roma. Un incredibile senso di leggerezza lo pervase, come quando era bambino. I problemi erano in città, dietro di lui.
Alle nove di sera stava guidando lungo una provinciale senza nome. Non c’era in giro nessuno e la sensazione che quanto stesse guardando oltre parabrezza fosse un film – sensazione sostenuta dal sapore dei pop-corn – era piacevole. I lampioni tingevano di giallo la notte, l’aria era fresca e il motore della Super 88 faceva un rumore infernale.
Dopo un paio d’ore, la strada smise di essere tortuosa e arrivò l’odore del mare. La campagna diventò brulla e pianeggiante. Il cuore di Monteverdi prese a battere forte: poco più in là, c’erano le luci di Buffalora.
Completamente ubriaco, parcheggiò l’auto. Scese portandosi dietro il pacchetto di pop-corn. Ricordava perfettamente quelle stradine sabbiose. Lei sarebbe stata lì, appena oltre quella ripida collina. Aumentò il passo. Gli mancava il fiato. Inciampò sulla salita e la sabbia gli entrò in bocca, ma non importava. Arrancando, riuscì ad arrivare in cima alla collina ed eccola! In che modo si presentava. Ubriaco, le mani sudate, il cuore tachicardico. Riprese fiato, nel tentativo di calmarsi. Non era cambiata nel corso degli anni. Lui sì. Non solo nel fisico – quella mattina aveva notato allo specchio un precoce imbiancamento dei capelli sulle tempie – anche nel modo di vedere la vita.
Monteverdi sentì arrivare le lacrime e iniziò a chiedere scusa. Più a se stesso che a Lei, la Spiaggia.
Buffalora aveva un piccolo cinema. Il proiezionista, che quando Monteverdi era piccolo doveva avere circa trent’anni, aveva recuperato un vecchio proiettore e delle casse. La sera, aiutato dai ragazzini più coraggiosi, portava quell’affare in spiaggia e metteva su un piccolo cinema privato. Proiettava soprattutto film dell’orrore, di quelli che nessun genitore avrebbe mai permesso ai figli di vedere. Ora, come allora, il proiezionista era lì. Aveva i baffi bianchi, ma a parte quello nulla era cambiato. Il proiettore era sempre lo stesso. Il film era un film dell’orrore e, seduti in religioso silenzio, tra ragazzi e ragazze ci saranno state venti persone.
Monteverdi scese per la collina, cercando di non cadere e di non dare troppo nell’occhio. Si sedette accanto a una bambina di circa dieci anni. Capelli neri, occhi scuri.
“Com’è il film?”
Lei disse “sht” senza nemmeno guardarlo. Lui le tese il pacchetto di pop-corn. Lei cominciò a mangiarli, in silenzio, ipnotizzata da Sei donne per l’assassino
Da quanto tempo Monteverdi non guardava un film senza pensare a come un’inquadratura fosse stata fatta o – questo più di recente – a quale piega stesse prendendo la sua vita? Anni? Decenni? Forse l’ultimo film lo aveva visto su quella spiaggia, prima di partire per Roma, conoscere la sua ex-moglie e Cosmo. Si guardò attorno. Quei piccoli visi spaventati, attenti, ammirati. Ecco perché voleva fare cinema. Ecco perché avrebbe diretto Monster II. Non per i soldi, quelli vanno e vengono. Né per la fama. Non sarebbe mai stato un Bava o un Fulci, questo lo sapeva già durante gli anni alla Sperimentale. Doveva fare Monster II perché un giorno qualcuno lo avrebbe proiettato su quella spiaggia e una bambina con i capelli neri avrebbe detto “sht!” a un altro bambino, zittendolo perché voleva seguire il film.

Oscar Francioso

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