Jean Stafford e la verità allo specchio


di Alex Marcolla

Il buio fitto calò improvviso e al risveglio in ospedale sul bel volto di Jean una coltre di bende le rese difficile capire cosa fosse successo. Riemergendo a fatica dalle quinte pesanti che le erano piombate addosso, Jean tentò di afferrare il frammento di un ricordo di prima che si spegnesse la luce. Era in macchina con Robert al volante e stavano litigando. Le discussioni tra loro non erano una novità. Quella volta però la faccenda era seria più del solito. Jean era stanca. Jean era arrabbiata. Lo amava e detestava se stessa per quel che provava per lui. Il grande poeta era malato e fingeva che ciò che lo affliggeva non esistesse. La finzione era a uso e consumo del pubblico, quello della stampa e quello dei lettori. Anche gli amici venivano tenuti fuori dal disturbo che trasformava le giornate di Robert in un calvario perenne. Jean non faceva parte del resto del mondo, lei non soltanto sapeva, viveva quell’inferno da quando si era innamorata di Robert. La vita di Jean ne era risucchiata al punto da renderle faticoso scrivere, la sua stessa vocazione rischiava di essere azzoppata da quella che allora veniva chiamata depressione maniacale. Jean e Robert si erano conosciuti per caso a una serata letteraria organizzata da amici comuni. Lui era già un fulgido nome tra i poeti della sua generazione. Lei era appena tornata da Heidelberg, unica del suo corso a vincere una borsa di studio di un anno presso la prestigiosa università tedesca. Jean cominciava allora a pubblicare i primi racconti sul New Yorker, voci del suo talento si erano già diffuse nella ristretta cerchia di scrittori che gravitava attorno alla rivista. Si innamorarono subito. Robert colpito dallo splendido sguardo e dall’acume sfrontato di Jean. Lei attratta dal fascino della personalità esuberante di lui, dietro la quale si celava quella che Jean sbagliando aveva interpretato come una punta di intima malinconia. Mettendo in subbuglio la limitata mentalità borghese degli anni ’30, Jean e Robert andarono presto a vivere insieme senza sentire il bisogno di legarsi tramite il vincolo matrimoniale. La vita in comune mostrò alla fine a Jean l’autentica natura di Robert, quel male che affiorando finiva con il deturpare la gioia del suo viso e la vivacità del suo spirito, riducendolo a un ossesso capace di bucare i muri a martellate convinto che dietro ci fossero prigionieri innocenti. La loro quotidianità dedita alla scrittura e allo studio veniva interrotta dalla compagnia degli amici. Tutto sembrava filare liscio, una coppia perfetta con una passione in comune. Quei momenti però diventavano sempre più sporadici, le crisi di Robert sempre più frequenti e quando Jean vinta dalla stanchezza si accorse che ne andava della sua stessa vita, cominciò a odiarlo. Robert non voleva l’aiuto di nessuno, non aveva bisogno nemmeno degli amici. Lui voleva soltanto la presenza di Jean. Quando lei insisteva perché cercassero un medico, lui le opponeva un netto rifiuto. Passerà, le diceva. Oppure acconsentiva chiedendo del tempo per rifletterci sopra e immancabilmente la richiesta di Jean finiva nel dimenticatoio. Lei tentava di vincere la tentazione di mettere nero su bianco i racconti che le passavano per la testa in quei frangenti, storie crudeli in cui lui moriva nei modi più atroci. Era ancora di questo che stavano discutendo la sera dell’incidente. Rientravano a casa dopo una serata tra amici, una delle rare ormai a cui avevano accettato di prendere parte. Nel mezzo di quell’acceso confronto, Robert perse il controllo dell’auto uscendo di strada. Dopo un ruzzolare vorticoso giù per la scarpata, la macchina si schiacciò con violenza contro un grosso albero. Quando i soccorsi arrivarono, Robert e Jean furono estratti da quell’ammasso di rottami ridotti male ma vivi. La peggio l’aveva avuta Jean, metà del suo bellissimo viso era svanito nel nulla.

Quando dopo un tempo che le sfuggiva i medici le tolsero finalmente le bende, Jean trattenne a stento l’impulso di gridare. Quella cosa riflessa nello specchio non era lei, quella faccia non le apparteneva. Qualcuno l’aveva obbligata a indossare una brutta maschera, una di quelle che i truccatori del cinema realizzavano per quei dozzinali film dell’orrore che tanto piacevano agli spettatori. Non era più lei. I medici le assicurarono che se si fosse sottoposta a una serie di interventi di chirurgia ricostruttiva, il suo volto sarebbe tornato come prima. O quantomeno si sarebbe avvicinato a quello di prima. Mentre le dicevano questo, Jean li osservava attonita. Loro non capivano. Non era più lei. Non sarebbe stata più lei. Qualunque fosse stato il suo viso, Jean non esisteva più. Dopo essersi ripreso dalle ferite, non era mancato un solo giorno che Robert le facesse visita. Lei lo teneva a distanza, gli intimava di non guardarla. Jean sentiva il bisogno di capire chi fosse quella nuova lei con la quale era costretta a scendere a patti. Cominciò la lunga trafila degli interventi. Un tassello dopo l’altro il volto di Jean veniva ricostruito e la sua immagine riprendeva lentamente vita, quasi lei fosse soltanto una statua inanimata pronta per essere esibita in un museo. Due anni dopo l’incidente, uscita da poco dall’ultima sala operatoria, dissero a Jean che la sua vita poteva riprendere. Le dissero che le poche cicatrici lasciate dalle operazioni sarebbero svanite con il passare degli anni. Jean si limitò ad annuire. Robert ora veniva seguito da uno specialista che lo aveva sottoposto a una cura sperimentale per tenere a freno le fratture improvvise della sua personalità. Le aveva chiesto di sposarlo. Anche davanti alle sue parole Jean si era limitata ad annuire. Lei si domandava ancora chi fosse la donna che sbirciava negli specchi che le passavano davanti. Non riuscendo a ottenere alcuna risposta, Jean si lasciò andare a una silenziosa deriva senza che nessuno attorno a lei se ne accorgesse.

Poco dopo essersi sposati, Robert e Jean ripresero la routine che aveva governato le loro vite prima che l’incidente le invadesse. Per gli amici che li vedevano con regolarità tutto sembrava essere tornato a posto. Anzi, sembrava che fosse meglio di prima. Ora Robert sembrava in pace con se stesso e malgrado i segni delle operazioni che ancora si notavano sui suoi zigomi, Jean pareva aver riconquistato la sua allegra curiosità. Se anche così non fosse stato, i loro amici avevano ben altro a cui pensare. La guerra infuriava in Europa e sempre più spesso si vociferava che gli americani sarebbero ben presto intervenuti nel conflitto. Anche senza una guerra in corso però, chi li circondava non sarebbe riuscito a notare cosa realmente stava accadendo nelle vite di Robert e Jean. Lui sempre di più assopito per via dei farmaci che prendeva, si destava solo quando era davanti al foglio bianco, pronto a scrivere versi che parevano uscire da un antro della sua mente immune dalla cura a cui era sottoposto. Lei scriveva storie sempre più bizzarre, sempre più cupe, sempre più feroci. Finirono con l’isolarsi in casa, ciascuno nel proprio studio a scrivere e a bere al punto da non distinguere più la differenza tra il giorno e la notte. Quando Robert ebbe una crisi violenta per aver interrotto la terapia e subì il primo di numerosi ricoveri ospedalieri, Jean semplicemente fece i bagagli e se ne andò. Divorziarono poco dopo e ormai anestetizzati dal dolore muto che sentivano, si lasciarono come due estranei che si erano sfiorati distrattamente. Erano trascorsi dieci anni. Non si rividero più. Quando parecchi anni dopo Jean vinse il Pulitzer per il libro che raccoglieva tutti i suoi racconti, lei accolse la notizia senza alcun clamore. Fatta eccezione per qualche saggio, aveva quasi del tutto smesso di scrivere. Chiusa nella sua vecchia casa in provincia riempiva le sue giornate bevendo molto e mangiando il meno possibile. Si muoveva sola tra le stanze disadorne e passando davanti a uno specchio non poteva fare a meno di chiedersi ancora di chi fosse il volto meravigliato che la stava fissando con insistenza.

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