Soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio


di Debora Vitulano

Se volessimo parafrasare Lev Tolstoj, potremmo dire che tutte le epoche felici sono uguali, mentre ogni epoca infelice è infelice a modo suo. Quale epoca è stata mai felice, vi chiederete. Difficile a dirsi, in effetti, ma in teoria questa doveva esserlo. Il nuovo millennio, gli anni Duemila, le nuove tecnologie, le distanze che si accorciano, il progresso e un mucchio di scoperte tecnologiche e scientifiche hanno riempito la testa e il cuore dei Millennials – e non solo – della speranza di poter presto godere di un mondo bellissimo, “senza frontiere né confini”, come disse Gagarin durante il suo primo giro in orbita intorno alla Terra. E invece questa luminosa utopia ci si sgretola tra le mani giorno dopo giorno, guerra dopo guerra. Ancora sangue, ancora violenza, ancora odio. Ancora partite di scacchi disputate dai potenti sulla pelle della povera gente.
Ma questa non è solo l’epoca dei sogni infranti, è anche l’epoca delle contraddizioni e delle potenzialità sprecate. È l’epoca della pace cercata con le armi, della Storia che non insegna ma si cancella con la rapidità delle storie sui social, di valori predicati a gran voce ma mal praticati nei fatti. Oggi ci si indigna per l’odio reagendo con ancora più odio, si depreca la censura a colpi di censura, si proclama di voler unire dividendo. Si vorrebbe vietare il grigio, polarizzando tutto fra bianco e nero, ma poi ci si dimentica dove sta il bianco e dove sta il nero.
Da un anno guardo con orrore alla guerra fratricida che si sta consumando in Ucraina, per poi voltarmi – io, le cui vene sono un crogiolo di sangue ed etnie – e scoprire nel nostro Occidente delle libertà, nella nostra Europa della multiculturalità, nel Paese che ha fatto della parola “fratelli” il fulcro del suo inno nazionale una caccia alle streghe di maccartiana memoria, che fa certamente meno male delle bombe, ma che non può non spillare ancora più lacrime.
Concerti, mostre, corsi e seminari cancellati su due piedi dall’oggi al domani per il solo fatto di riguardare qualche russo. Vivo o morto che sia, non importa. Un’intera cultura messa al bando, ostracizzata, bollata come ostile, proprio in un Paese che con quella cultura ha un legame di sangue fortissimo, il sangue di intellettuali e artisti di ogni epoca e angolo di quella sterminata nazione che è la Russia, che l’Italia l’hanno decantata, vissuta, visitata, amata. Persone che a volte senza averci mai nemmeno messo piede l’hanno sentita come una patria spirituale, perché culla e centro di quella Cultura con la c maiuscola che non costruisce muri ma ponti fra i popoli, quella Cultura che non conosce bandiera che non sia l’umanità tutta, quella Cultura che, se ben usata, potrebbe essere l’arma più potente di tutte.
Roma, via Santo Isidoro, civico 17. Questo fu l’indirizzo di Nikolaj Gogol’ negli anni tra il 1837 e il 1841. Il coronamento di un grande amore sbocciato ancor prima di mettere piede nel Belpaese, tanto da dedicargli uno dei suoi primi componimenti, l’unico scritto in versi:

Italia, magnificente Paese!
Per te l’anima geme, e si strugge:
tu sei paradiso, tu piena letizia
[…]
Giardino dove tra il vapor dei sogni
vivono Torquato e Raffaello ancora!
Ti vedrò io, trepido d’attesa?

Quando poi finalmente la vide, ne parlò come della “patria della mia anima”, il luogo dove il suo spirito “viveva prima ancora che venisse alla luce”. Dell’Italia Gogol’ amò proprio tutto, dal clima (“l’aria fa venire voglia di trasformarsi in un gigantesco naso, con narici grosse come secchi per farci entrare almeno settecento angeli”), al patrimonio storico e artistico (“tutto ciò che leggete nei libri, lo vedete qui davanti a voi”), fino al popolo (“dotato in gran misura di senso estetico”). Per Gogol’ semplicemente non c’era al mondo Paese più bello dell’Italia, da cui non sarebbe mai voluto tornare, perché “chi è stato in cielo non avrà mai voglia di tornare sulla terra”.
E fu proprio a Roma che Gogol’ scrisse alcune delle sue opere più famose: la raccolta Il ritratto e Il cappotto, nonché il primo volume dell’inconclusa trilogia Le anime morte, per cui trasse ispirazione dalla Commedia dantesca.

Firenze, Piazza Pitti, civico 22. È qui che nel 1868 si stabilì Fëdor Dostoevskij, finito nell’occhio del ciclone, fra chi a Milano cancellava lezioni su di lui e chi, proprio a Firenze, proponeva di abbatterne la statua. Eppure, il soggiorno fiorentino, durato un anno, fu tanto caro a Dostoevskij.
La moglie Anna nei suoi diari annotò: “Il cambiamento ebbe di nuovo un effetto benefico su mio marito e noi cominciammo ad andare insieme per chiese, musei e palazzi”.
Quell’anno, proprio in Piazza Pitti, nacque anche la prima figlia della coppia, che fu chiamata Ljubov (“amore” in russo). E se ogni opera è per il suo autore un po’ come un figlio, allora potremmo dire che a Firenze vide la luce anche un’altra creatura di Dostoevskij, uno dei romanzi più famosi della letteratura russa, L’idiota. Dostoevskij stesso avrebbe ammesso che questo progetto lo tormentava da tempo, perché era un’idea difficile quella di rappresentare un uomo completamente buono, ma in Italia riuscì nell’impresa.
Anton Čechov tra il 1891 e il 1894 visitò Trieste, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Pompei e salì addirittura sul Vesuvio. Per lui l’Italia era il “paese delle meraviglie” e a Genova, in particolare, ci lasciò il cuore, tanto da scriverne nel celebre dramma Il gabbiano:“C’è una meravigliosa folla nelle sue strade. Quando esci, la sera, dall’albergo, sono tutte gremite di gente. Ti muovi in mezzo alla folla senza una meta, su e giù, a zig-zag, vivi della sua vita, ti fondi con essa psichicamente e cominci a credere che in realtà sia possibile un’unica anima universale”.
Questa è la cultura che qualcuno vorrebbe mettere al bando, una cultura che è italiana, europea, mondiale, come patrimonio di ogni uomo, donna e bambino su questa Terra dovrebbe essere ogni opera d’arte mai realizzata, così come la possibilità di essere liberi e di trovare in ogni essere umano un fratello piuttosto che un aguzzino.
Si potrebbe andare avanti a lungo, citando altri nomi illustri che nel Belpaese hanno soggiornato e creato, come Karl Brjullov o Maksim Gor’kij, ma preferisco chiudere questa breve carrellata di intellettuali nati con un’anima italiana sotto un cielo russo – non me ne voglia Orazio per questa pantomima di una sua celebre frase – con uno scrittore di cui tutti in Russia conoscono a memoria almeno qualche verso, quello che viene generalmente considerato il Sommo Poeta russo. Sto parlando di Aleksandr Puškin, che non riuscì mai a coronare il suo sogno di visitare l’Italia, ma che l’amava e che, pur senza averla mai vista, riuscì a infonderle un soffio di vita così calda che nessun italiano non potrebbe non sentirvi qualcosa di vero e reale:

All’Italia
Chi conosce la terra dove il cielo
d’indicibile azzurro si colora?
dove tranquillo il mar con l’onda sfiora
rovine del passato?
dove l’alloro eterno ed il cipresso
crescon superbi? dove il gran Torquato
cantò? dove anche adesso
ne la notte profonda
i canti suoi va ripetendo l’onda?
la terra ove dipinse Raffaello,
dove gli ultimi marmi
animò di Canova lo scalpello
e Byron rude martire ne’ carmi
dolore, amore effuse e imprecazione?
Italia, terra magica, gioconda
terra d’ispirazione!

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