Non eravamo persone comuni per non dire che non eravamo normali.
Normale, anormale, idiota, minorato, stupido. Grassa, bavosa, mostro. Negli ultimi tempi si parla molto di politicamente scorretto, di certi linguaggi che è meglio risparmiarsi per non offendere, per non escludere, a ogni costo. Il fatto è che, in certi casi, essere politicamente scorretti non è un’opzione, ma una necessità; è l’espressione della propria arte. Aurora Venturini (1921-2015), scrittrice argentina di origini italiane, scrisse per tutta la vita in modo brutale, sboccato e molto scorretto, e proprio per questo, fu compresa solo molto tardi, alla veneranda età di ottantacinque anni.
Andò così. L’autrice candidò uno dei suoi numerosi romanzi al Premio Nueva Novela organizzato dal quotidiano argentino Página/12. Ne aveva pubblicati già decine con case editrici indipendenti, dopo che, rigorosamente, erano stati ignorati dai grandi nomi, alcuni avevano vinto piccoli premi comunali, altri li aveva persino autopubblicati. La giornalista Mariana Enriquez, coeditrice del giornale nonché giurata del premio, lesse il manoscritto e ne rimase turbata e affascinata insieme. Confrontandosi con Liliana Viola, anche lei giurata, scoprì che i suoi sentimenti erano condivisi. In un flusso di coscienza dove la punteggiatura era ridotta all’osso e il punto di vista era quello della protagonista, una bambina dislalica, veniva raccontata la storia di una famiglia tutta al femminile, dove gli uomini non compaiono o, quando lo fanno, è solo per abusare. Forse era un romanzo autobiografico, di sicuro era un romanzo che poteva vincere. E infatti vinse.
Invitata alla cerimonia di premiazione, la Venturini si presentò sfoggiando un atteggiamento da vecchia punk, il corpo magro e l’aspetto insolito, eccentrico soprattutto. “Finalmente una giuria onesta”, fu il suo aspro commento. La vittoria da outsider le regalò la notorietà, il romanzo dal titolo Las primas venne pubblicato e tradotto in numerose lingue, incluso l’italiano (Le cugine, Sur, 2022). Improvvisamente Aurora si ritrovava oggetto di articoli e discussioni accademiche, veniva definita una delle voci più interessanti della letteratura argentina del XX secolo.
Aurora cavalcò senz’altro l’onda. Dopotutto aveva atteso quel momento per tutta la vita. Asseriva di essere peronista, amica di Evita, di essere fuggita dal paese dopo il golpe del ’55 e aver vissuto un esilio parigino dove aveva incontrato la scrittrice Violette Leduc e addirittura gli esistenzialisti. Diceva di parlare coi fantasmi, che da piccola aveva avuto dei ragni come animali domestici, che, dopo una caduta dal letto, era diventata amica di un prete esorcista, e pure di Victoria Ocampo e Jorge Luis Borges. Di essere imparentata con Tommasi di Lampedusa in persona.
Grafomane, probabilmente mitomane, c’è da scommettere che si divertisse ad alimentare il proprio mito, e attraverso i libri plasmò il personaggio. Pur non amando affatto la sua, scrisse sempre di famiglia, tema per lei ossessivo e imprescindibile, declinato in quel modo tutto particolare e sconcertante.
Le mie creature sono tutte mostruose. La mia famiglia era davvero mostruosa. È quello che conosco. Io non sono molto comune. Sono una strana entità che vuole soltanto scrivere. Non sono socievole. L’unica volta che mi capita di stare in compagnia è il 24 dicembre.
È stata paragonata spesso a Dolores Prato (1892-1983), scrittrice italiana che, come lei, divenne celebre passati gli ottanta. Anche la Prato non era un’esordiente perché aveva passato tutta la vita a scrivere con perseveranza e determinazione, pubblicandosi da sé, finché non era approdata nel catalogo di Einaudi con Giù la piazza non c’è nessuno, la cui prima versione del 1980, molto ridotta, la lasciò profondamente insoddisfatta. Purtroppo non visse abbastanza per vedere la seconda e integrale, che uscì diciassette anni dopo.
Diversissime per vicende personali e carattere, nessuna delle due poté svincolare la propria fama dall’età anagrafica di debuttanti fuori corso. Tuttavia, ciò che più le accomuna, oltre al tardivo successo e l’unicità del linguaggio, è la precisa convinzione al limite dell’ostinazione di avere qualcosa da dire nonostante il mondo fosse di opinione contraria. Aurora e Dolores non si conoscevano nemmeno, eppure hanno continuato a scrivere per decenni in un modo similissimo, consapevoli delle proprie qualità, e lo hanno fatto prima di tutto per se stesse. Una tale testardaggine che non solo le ha ripagate, ma ha contribuito a spanderne l’eco rendendo queste audaci vecchiette di fatto immortali. Chissà quante altre storie come queste si nascondono tra le pieghe della storia di ieri, di domani, voci femminili a lungo ignorate, scomode, disturbanti anche, che finalmente conquistano il posto che meritavano.