di Edoardo Poli
Ho terminato di leggere L’edera di Grazia Deledda nella Cattedrale di San Marco, a Latina. Era una giornata grigia e l’idea di leggere le ultime trenta pagine in completo silenzio mi affascinava perché sentivo che il tema ben si accordava con l’atmosfera che sempre mi dona un luogo spirituale. Per di più, ero giunto nel momento in cui si intensificano i rapporti tra il prete Virdis e Annesa. Gli indifferenti, invece, l’ho divorato sul terrazzo di casa, in un periodo abbastanza complicato, in cui avevo bisogno di silenzio, pace e soprattutto di staccare dal mondo online e social per avere un maggiore radicamento con la realtà al di qua della rete, che tutto può e tutto ingloba. Infine, I fratelli Karamazov l’ho finito di leggere il giorno del mio compleanno del 2021, qualche mese prima della pausa da tutto e tutti. Una lettura durata circa quattro mesi, con una tabella di marcia di dieci pagine al giorno così da poter “digerire” un libro di quella mole, fisica e intellettuale. Cos’hanno in comune questi testi, che ho letto a fasi alterne, nel giro di due anni? Il problema di Dio.
Non sono un credente, ma posso dire di rientrare in quella categoria sociologica, davvero interessante, di coloro che non credono ma hanno una propria spiritualità; eppure da bambino ero il primo a rimbrottare a mio fratello la sua scarsa applicazione al catechismo. Ma quando il giorno della Prima Comunione il prete ci chiese: “Sentite Dio nel cuore? Se prendete l’ostia senza avercelo, questo sarà giudicato come un peccato mortale”, fu allora che nacque, forse, la mia prima riflessione sul tema. Dov’era Dio?
I nostri tre autori – Deledda, Moravia e Dostoevskij – si pongono lo stesso problema, ma su un altro piano: quello morale. L’esistenza o meno di un’entità divina potrebbe portare a gravi conseguenze morali, quelle messe in pratica da Smerdjakov, il quale uccide il padre perché era rimasto colpito dalle parole del “fratello” Ivan: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”. A questo problema ci sono diverse soluzioni.
Dostoevskij, maestro dello studio della morale e della psiche umana, porta all’estremo le ripercussioni che un pensiero del genere possa avere: se Dio non esiste – in questo caso l’estremo valore – allora tutto è concesso, anche l’omicidio, perché non c’è nessuno che possa giudicare l’atto compiuto, in quanto non esiste giudice superiore a Dio, che è il fulcro di ogni valore e il deterrente massimo. Nietzsche potrà così scrivere “Dio è morto” e avviare quella grande macchina deduttiva che arrivò fino a pensare l’eterno ritorno dell’uguale e il nichilismo.
Un giovanissimo ragazzo, di quindici anni, un po’ malato, impossibilitato a compiere gravi sforzi, decise di scrivere un romanzo che rispondesse al problema posto da Dostoevskij: Gli indifferenti di Alberto Moravia nasce proprio con questo intento e finisce con una clamorosa inversione rispetto allo scrittore russo: se Dio non esiste, allora nulla ha senso. Nemmeno l’omicidio. Michele dimentica di caricare il revolver e così Leo si salva. Finale tragicomico ma che evidenzia tutto il problema che per lo scrittore romano era pressante all’epoca, come scrisse più di mezzo secolo dopo, ovvero l’impossibilità di agire da parte dell’intellettuale una volta venuto meno la principale causa morale. Si può, cioè, agire senza alcuno scopo morale? Una domanda che se trovasse la risposta farebbe scontenti molti filosofi.
All’inizio del secolo, in Sardegna, una giovane donna scriveva romanzi e vinse anche un Nobel, proprio negli anni di Moravia: Grazia Deledda pubblicò L’edera nel 1907 in francese e in tedesco. Anche qui, secondo la mia personalissima lettura, c’è il problema della mancanza di Dio. Il romanzo si apre con i due anziani, nonno e suocero di Paulu, che commentano un fatto di cronaca affermando che non c’è più timore di Dio; nel finale, Annesa invece cerca redenzione, presa da una mania religiosa. Nel mezzo, c’è stato un omicidio commesso proprio dalla donna, esasperata dalla situazione familiare e intenta a salvare l’amato “fratello” – amante. Paulu ha convinto Annesa che Dio non esiste: la donna, dunque, non è frenata da un valore supremo, da un ripensamento nell’istante in cui realtà e sogno si confondono (questo elemento tipico in Dostoevskij, come si vede anche in Delitto e castigo, in cui Raskolnikov è sempre febbricitante e delirante). L’omicidio avviene e solo successivamente spunta Dio, quasi che la sua apparizione avvenga nel momento in cui l’umano è tenuto in ostaggio dalla sua coscienza. Annesa è presa nel suo destino tragico, nell’idea che tutto fosse già compiuto e non ci fosse rimedio alcuno. Ma le parole del prete ricordano che il male è stato fatto perché Annesa aveva dimenticato di non essere padrona di alcunché. Ancora una volta la presenza di Dio, come valore supremo, appare determinante.
Ancora una volta, la letteratura mi ha interrogato e io ho provato a rispondere. Non sono religioso, mi piace però pensare a questi grandi temi come a uno sforzo collettivo di una specie che si interroga sin dall’alba dei tempi. Deledda ha ben espresso questa distanza tra le inquietudini degli uomini e il cosmo, placido:
Ella s’inginocchiò davanti al parapetto e sporse appena il viso fra due pietre: sul suo capo, nello sfondo della rozza arcata, brillavano le stelle; tutto era silenzio, pace, ombra. Il cuore le batteva convulso, la febbre aumentava il suo terrore. Le pareva che i fantasmi mostruosi l’inseguissero, per afferrarla e gettarla in un luogo più misterioso e spaventoso di quell’inferno al quale non credeva. Il caos era intorno a lei: un’ombra, una nebbia, una notte tormentosa, senza fine.