Io è un altro

di Manu Bazzano

Je est un autre. Tant pis pour le bois qui se trouve violon.
Rimbaud

Da ragazzo scrissi una poesia per Pasolini, intitolata Morte di un poeta il giorno dopo il suo assassinio. L’appiccicai sul muro della mia stanza con una sua minuscola foto ritagliata da un giornale. Poesia e foto erano ancora lì quando gli amici vennero a trovarmi dopo la morte di mia madre. La notte di quel giorno di marzo quando morì lasciammo ad uno ad uno la camera ardente per buttarci nella solitudine del sonno. Il corpo sbiancato nella bara aperta nella stanza degli ospiti, raramente abitata, le posate d’argento intatte e un servizio da tè mai usato.  Al tempo si avvolgevano gli specchi di una camera ardente con un panno nero. Il lutto sarà per i vivi, ma l’usanza considerava i defunti: i riflessi nello specchio distraggono, rendendo arduo l’ultimo viaggio.

Suona strana dapprima una voce italiana in un autobus londinese, incomprensibile e remota. La familiarità emerge dopo un po’, le catene del linguaggio mi riavvolgono, l’itinerante gabbia edipica, mamma, papà. Affitti mutui abbonamenti. Patine svelate: diventare orfani, perdere la base sicura. Desolazione euforia seduto alla stazione di St Pancras a rosicare un panino guardando i passanti. Gioia tristezza. Libertà di non appartenere. Non so che farmene d’un paese, d’un inno nazionale, di tradizioni caserecce o della fissa del suolo.

Antichi compagni di viaggio nel sogno della notte scorsa, perduti per sempre. Sulla via di casa il 46 è una nave fantasma nel traffico del venerdì sera. Chissa perché mi torna in mente il fascino che nutrivo per i trans. Ne amai due un tempo nella carne e nell’irrimediabile lontananza. Confesso d’aver vissuto da gatto randagio. Le strade sottostanti serpeggiano; uno strascico di ombre mi insegue, le luci della città oltre la ferrovia. Il mio riflesso nella vetrina notturna un pallido spettro. Volevo anticipare la notte, sconfiggere trame sulla lastra muffita. Giù verso la città, aria calda e suoni, poi una stanza, l’amore fra pareti ammutolite. Decenni dopo trovai il bandolo: Jean Genet, che descriveva i trans come angeli.

Gli scritti di Genet sono stati canonizzati all’interno dell’esperienza e della letteratura gay; si pensi alla bellissima biografia di Edmund White e al tomo pesantuccio di Sartre, Santo Genet, commediante e martire. Interpretazioni più recenti rivendicano il ruolo di Genet nella cultura trans e negli studi transgender. Affermano il contrabbando come metodologia critica incarnata che privilegia linee di fuga a detrimento di strutture di potere falsamente compatte. Ammiccano a nuovi valori mediante elaborati intrecci di connettività. Il mondo accademico è allergico al contrabbando, ma il contrabbando è indispensabole. To live outside the law you must be honest, come disse Bob Dylan. Il sapere della tradizione non sa contenere la complessità dell’esistenza né sa fornire configurazioni per pratiche di libertà. Il contrabbando va ben oltre una serie di mosse avventurose. Va oltre gli anemici pout pourri di “arte e politica”, “teoria e pratica” e diventa fondamentale nel sostenere pratiche radicali. Genet è esempio e guida; i suoi primi scritti videro la luce in carcere; vennero poi contrabbandati fuori dalle mura della prigione per la pubblicazione. Il contrabbando consente pratiche di conoscenza ed emancipazione che aggirano barriere e confini arbitrari e rispondono ai bisogni del presente, nel tentativo di produrre risposte agguerrite all’odio e al pregiudizio che continua a dilagare nella storia, dalla misoginia all’omofobia alla transfobia.

A vent’anni s’era rivoluzionari con una differenza. Dal femminismo avevamo appreso i limiti dolorosi del modello maschile convenzionale. Da Pasolini imparammo la tenerezza della trasgressione. E così finimmo sullo stesso letto lei, lui e io, e quando dopo l’amore lei s’addormentò lui e io ci scambiammo tenere carezze, il riflesso giallastro del lampione tesseva mosaici sulla buia parete e sul poster di Pier Paolo, la sua feroce compassione sprizzava brividi di vita selvaggia nei cuori della meglio gioventù.

La bisessualità, spiega Hélène Cixous, è spesso la fantasia labile di un essere completo, un tentativo di sostituire il terrore della castrazione e dissimulare la differenza sessuale. Ma può anche essere l’aspirazione di accasare in sé entrambi i sessi, il rifiuto di imprigionarsi nel Teatro Fallocentrico. Cosa temo come uomo ogni volta che m’identifico come tale? Ho forse paura di essere posseduto? Essere posseduti è una prospettiva per nulla attraente all’interno dell’immaginario maschile: troppo “passiva”, troppo pericolosamente vicina al femminile. Per un uomo etero come me, essere posseduto può tuttavia costituire un’esperienza fondamentale. Non venire a conoscenza della “passività” comporta il rischio di rimanere bloccati nel ruolo di buffone berlusconiano che sonda il paesaggio con un’erezione incongrua. La cosiddetta passività è preludio alla perdita. Ben venga la perdita: di potere, controllo, di spiegazioni lineari dell’esistenza – di complicità con i dettami dell’evoluzione.

Sono un terrone dalla regione più povera della Bella Italia, anche se mio padre si tirò su dai bassi ranghi con lo studio e la disciplina francescana. Sono un lanciafiamme e sono certo che nessuno fra voi ha conosciuto l’estasi di sfasciare un locale di fascisti o la gioia di vedere una camionetta della polizia andare in fiamme in risposta alla brutalità delle forze dell’ordine. Cammino sulla neve e non lascio impronte, ma come spiegarlo agli altri il giorno dopo? Come potranno mai capire? Io sono un mondo intero che verrà sepolto e dimenticato quando questo corpo si dibatterà invano dopo l’ultimo respiro, quando sarà libero e pronto a incontrare sora morte, la morte amante che avrà i tuoi occhi sirena come ben disse il poeta.

Sono un musicista rock che si vende la Gibson Les Paul per comprarsi un biglietto di sola andata per l’universo oltre la parrocchia finché formo una band, Daedalo, non solo labirinto ma anche Dedalo padre di Icaro, artista, architetto ecc.,  perché chi lo dice che bisogna vivere forte e morire giovani e bruciarsi le ali volando stupidamente vicino al sole quando si può vivere intensamente e campare cent’anni. Ma Daedalo ammiccava anche a Stephen Dedalus per intenderci e mi fermo qui sennò.

Poi di notte seduto fuori in una casa semi abbandonata in campagna a schitarrare doverosamente per gli amici Heroin dei Velvet Underground. Gioco con la morte a 23 anni, assaggiando l’eroina tre volte. La prima volta è il paradiso, goccia di limone, vulva, gioia nell’aria mattutina, ogni gesto esulta come falena e fiammella e così via. La seconda volta è il purgatorio, l’attesa d’una beatitudine che non arriva; la terza e ultima volta è l’inferno, il malessere e la vertigine del nulla. Basta. E oggi niente più scorciatoie per falsi risvegli, solamente succo di melograno, caffé e acqua del rubinetto.

Sono un puer mistico in India negli anni Ottanta, scrivo canzoni devozionali, volteggio come un derviscio, mi siedo in silenzio e faccio tanto sesso e verso tante lacrime e rido finché fa male e capisco dopo cinque anni di studi filosofici d’avere un corpo, pardon, d’essere un corpo. Poi trovo lo zen uno shock nell’anno del signore 1996 constatare in un fienile nel Suffolk che questa antica tradizione è viva e vegeta, non riducibile a graziose citazioni per yogi e yogini della classe media e che ha un cuore che batte forte e le fauci d’una tigre che mi sbranerà vivo prima che riesca a piluccare una fragola di bosco e trovare in me un grazie sincero per questa esistenza. E chiunque tu sia o creda di essere caro lettore cara lettrice ti scongiuro non perdere tempo a scusarti e soprattutto non aspettare che lo stato e il governo o la tua tribù o club ratifichino la tua differenza. Molto meglio praticare la libertà di cui parli. Non sono io a dirtelo ma Michel Foucault in persona: la cura di sè è nient’altro che l’ardua disciplina della libertà e così sia.

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