Detlev Meyer, il bambino che volò troppo vicino al sole

di Alex Marcolla

Ora che era prossimo alla fine, Detlev si chiedeva spesso a che punto della sua vita si fosse allontanato dal Sole. Chiuso in casa aspettando un nuovo ricovero in ospedale rimuginava sul passato tentando di capire quando quello stato di grazia che nella fanciullezza lo aveva fatto sentire libero come mai più dopo, fosse svanito nel nulla. Non era la prima volta che quei pensieri occupavano la sua mente e la tentazione di impiegare la scrittura per fare luce su quegli interrogativi c’era sempre stata dentro di lui. Detlev aveva preferito lasciar perdere, gettandosi a capofitto nella vita senza voltarsi indietro. Ora però era diverso. Ora il suo tempo era agli sgoccioli. Detlev ne era consapevole e prima di morire pretendeva di conoscere la verità su ciò che lo assillava. Decise che avrebbe raccontato della sua infanzia recuperando con le poche forze che gli rimanevano lo spirito che si respirava allora e che poi era evaporato trasformando la sua vita in una corsa a perdifiato. Per lui sarebbe stato il libro definitivo, il solo che avrebbe considerato autentico. Non era di certo il primo, tanti infatti Detlev ne aveva scritti negli ultimi due decenni. Le sue poesie e i suoi racconti gli avevano donato una grande celebrità, al punto che diverse testate giornalistiche lo ritenevano l’unico dandy della letteratura tedesca. Detlev però non aveva toccato prima di quel momento il nodo che lo assillava, quello che gli si parava davanti agli occhi anche quando lui insisteva a volgere lo sguardo altrove, il solo mistero che si frapponeva tra lui e la ragione più viva della sua scrittura. La perdita irrimediabile della sua innocenza, la sua personale cacciata dal paradiso terrestre. Detlev era stato uno studente modello. Come gran parte dei ragazzi europei nati poco dopo il secondo conflitto mondiale sognava epiche fughe on the road alimentate dalle immagini che anche il nuovo cinema tedesco proponeva in maniera suggestiva. Compiuti gli studi, Detlev lasciò la Berlino Ovest nella quale era nato e cresciuto, impaziente di scoprire cosa avesse in serbo per lui il mondo. A quel punto aveva già chiuso gli occhi sui primi anni felici senza accorgersene, forse era stata la naturalezza dei primi passaggi della vita a ingannarlo. Di certo è la vecchiaia il terreno fertile per strenue rese dei conti con ciò che non è stato. La vecchiaia o una crudele morte prematura. Arrivò a Cleveland, poi si trasferì a Toronto. Sfruttò ciò che aveva studiato per diventare un bibliotecario. Il suo inglese fluente e una innata solarità del carattere gli resero facile intrecciare salde amicizie. La sua affabilità generava un sincero affetto attorno a lui e avendo sempre sentito ogni aspetto umano con estrema naturalezza, Detlev viveva senza alcun tipo di patema quella attrazione per gli uomini che aveva fatto capolino prestissimo nella sua vita. Quando era sul punto di compiere trent’anni, Detlev sentì la necessità di interrompere quella felice routine per aiutare chi aveva meno di lui. Partì come volontario nei paesi in cui la miseria era una piaga inarrestabile che spezzava le vite di tanta gente umile, soprattutto donne e bambini. Quel che gli capitò di vedere gli restituì bruscamente per contrasto l’immagine del paradiso perduto legata alla sua infanzia berlinese. Impossibile chiudere gli occhi sul suo presente, difficile rifiutarsi di tornare al passato di grazia che non c’era più. Un tremore intenso dentro di lui gli fece rimpiangere la sua città natia. Lasciò tutto e partì alla volta di Berlino Ovest. Cominciavano gli anni ’80.

Appena rimesso piede in città, Detlev si accorse che una nuova frenesia si affacciava dagli occhi dei berlinesi. La Germania era ancora divisa tra due blocchi contrapposti. Le forti tensioni politiche che tuttavia avevano animato i confronti dei decenni precedenti degenerando spesso in scontro aperto ora sembravano aver lasciato il posto a una curiosa e irrefrenabile esuberanza. Una rinnovata voglia di vivere percorreva con insistenza le strade e i caffè, i teatri e i cabaret. Nuove forme espressive si mescolavano a tradizioni antichissime, le sperimentazioni sonore più radicali andavano a braccetto con le melodie più classiche e popolari. Detlev rimase abbagliato dalla inedita veste indossata da quei luoghi a lui così familiari. Ancora una volta Detlev spinse in un angolo della mente il suo bisogno di capire che fine avesse fatto il tepore dei suoi primi anni spensierati. Una inaspettata Berlino lo attendeva e lui ne sarebbe stato il cronista per eccellenza. L’avrebbe raccontata come una nuova età dell’oro, una Weimar rediviva dalle macerie opprimenti della storia tedesca. Viva era la curiosità di Detlev per ciò che sarebbe potuto accadere a questa Weimar di fine secolo, forte era la sua speranza che questa volta dietro l’angolo non si nascondesse una immane tragedia. Come un novello Isherwood, si immerse nelle notti berlinesi. Non c’era evento che non riuscisse a sintetizzare attraverso versi e racconti suscitando la meraviglia di tutti. La fama lo investì quasi senza che se ne rendesse conto e la gioia gli bruciava nelle viscere a tal punto intensa da fargli perdere di vista cosa si agitava realmente dietro quell’accecante fulgore, risvegliandosi del tutto impreparato dalla sbornia di quel decennio. Mentre il mondo festeggiava la caduta del Muro di Berlino auspicando la fine della Storia e l’inizio di un altro tempo fatto di pace e libertà, Detlev faceva i conti con il virus che stava uccidendo senza discriminazione alcuna tutti quelli che lui aveva raccontato in quegli anni attraverso le sue parole. Un cappa pesante di silenzio era piombata su quella malattia. Gli strilli di gioia per la fine di una lunga tormentata epoca coprivano le disperate richieste di aiuto di chi stava morendo di Aids. Detlev sarebbe stato uno di loro. Ora non poteva più rimandare, aveva un acuto bisogno di capire a che punto del tragitto quella vitale armonia degli inizi fosse andata perduta. Si chiuse in casa e si mise a scrivere.

Ecco allora sfilare uno dietro l’altro sulle sue pagine i luoghi e le persone che avevano costituito il protettivo ventre materno degli anni in cui Detlev si sentiva illuminato e riscaldato dal dio Sole. Ecco il quartiere berlinese in cui vivevano lui e la sua famiglia sul finire degli anni ’50. La guerra alle spalle, il presente carico di vita e il futuro che mai avrebbe potuto essere terribile come quel che era stato il passato. Ecco il nonno di Detlev, l’uomo elegante e ricco diviso tra l’amatissima moglie e l’indispensabile amante. Ecco i suoi genitori, la madre dal sorriso caparbio, il padre dagli occhi tristi quasi sempre silenzioso in casa. Poi il fratello, gli amici, il brusio melodioso dei vicoli. Pareva che le notti avessero cessato di esistere e le giornate fossero una sola inesausta festa della vita. Per Detlev il nonno era un eroe, una creatura mitologica, il padre degli Dei. Con lui andava nei caffè, con lui frequentava i concerti, con lui visitava le sartorie provando vestiti finissimi su misura. Tutto rasentava la perfezione, un onirico paradiso nel quale Detlev era al settimo cielo. Crescendo però intravide un melo nascosto in questo suo meraviglioso giardino e attratto dai frutti lucenti che pendevano dall’albero, Detlev vi si avvicinò. Colse una mela. Un solo morso impulsivo e nulla fu più come prima. La coltre si strappò e gli occhi tristi di suo padre rivelarono gli orrori che aveva visto durante la campagna di Russia. Anche il padre degli Dei cadde dall’Olimpo rovinando a terra goffamente. Suo nonno era stato membro del partito nazista, si era arricchito durante il regime, non aveva mai dubitato delle sue scelte. Ecco l’istante in cui ogni cosa era mutata. L’infanzia di Detlev era morta per sempre. La verità non rende liberi, si ripeteva ora tra le lacrime. La verità rende schiavi del dolore. Solo la finzione rende immortale la felicità. Di tutta questa realtà non vi sarebbe stata traccia alcuna nel suo romanzo. Uno scrigno in cui preservare l’innocenza di quegli anni, ecco ciò che avrebbe creato con le sue parole. Un rimedio contro il buio. Ora poteva morire tranquillo. Sarebbe rimasto in eterno il bambino del Sole.   

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