La fantascienza come desiderio di un altrove o etichetta di genere?

di Edoardo Poli

Solitamente la fine di una serie tv, di un film o di un romanzo produce in me una strana apatia che segna quel momento proprio di ciascuno che termina una storia: la malinconia per ciò che non accadrà perché ciò a cui abbiamo assistito o letto rimanda all’impossibile, al fantasma e a ciò che manca e mancherà per sempre.
Questa sensazione mi ha recentemente attraversato con la fine della serie tv Andor, un prodotto appartenente alla saga Star Wars e che non può non far riflettere sul ruolo che la fantascienza ha nella produzione dell’immaginario collettivo e sulla sua abilità di creare scenari imprevisti ma quanto mai probabilisticamente realizzabili.
Perché concentrarsi sulla fantascienza? Una qualsiasi storia potrebbe creare questo effetto, specialmente se ambientata in un’epoca che per noi non sarebbe possibile vivere: quindi, immaginarsi essere un gladiatore nella Roma antica o un contadino nella Bretagna del 1300 non deve essere molto diverso che pensarsi catapultati in un periodo indistinto, nel futuro. Insomma, siamo sempre nel regno dell’immaginazione, così come non si potrà mai vivere nel corpo di un altro, che sia un pastore nel deserto o un ricco magnate occidentale. Tutte obiezioni giuste, alle quali non potrei che assentire e dire: “Ma certo amico mio, tu hai ragione, eppure…”. Quell’ “eppure” fa tutta la differenza del mondo.
Se pensiamo alla fantascienza proprio di Star Wars non può non toccarci una vertigine incredibile: navicelle, salti nell’iperspazio, migliaia di razze diverse che popolano un Universo vastissimo, pieno di insidie e di avventure. Ma anche, d’altra parte, condizioni di vita che sono ingiuste, non dignitose e che necessitano di un cambiamento, nonostante tutte le tecnologie disponibili. E poi la Forza, la connessione con il Tutto che permette di poter dialogare con gli altri viventi, fino a sentirsi parte di loro.
Il desiderio di lasciare le nostre vite quotidiane, di abbandonare tutto e lanciarci tra le stelle. Questa fernweh, espressione intraducibile che sta a significare una sorta di nostalgia per ciò che è sconosciuto, è il motore affinché una buona storia di fantascienza riesca. Specialmente se si parla di space opera, ovvero di opere ambientate nello spazio. Pensiamo a 2001: Odissea nello spazio, il viaggio verso Saturno si trasforma in un incubo. Completai la lettura mentre ero diretto verso Udine e il finale mi spiazzò: quest’uomo che rimane da solo, in un viaggio impossibile, dove tutta la solitudine si concentra in lui. Ma anche la determinazione di sopravvivere a ogni costo. Guardando fuori dal finestrino le pianure venete e friulane, con i colori dell’autunno ad addolcire le figure di un posto così sperduto nella mia mente – e pensare che mio nonno e mio padre fecero entrambi il militare a Sacile – pensai a come si sarei sentito io, perso lì così lontano da casa, senza alcuna possibilità di rimanere in vita, perso nei meandri del nostro sistema solare.

La fantascienza è un genere che oggi va di moda, specialmente su grande – Christopher Nolan, Denis Villeneuve, ecc. – e piccolo schermo, ma si tratta di prodotti che non riescono a staccarsi dalla realtà così come sono riusciti a farlo i grandi – Isaac Asimov, Philip Dick, Frank Herbert, ecc. – i quali hanno visto oltre il nostro momento per proiettarlo al di là del tempo. Mi pare infatti che tutte le storie si riducano a un presente possibile con le tecnologie attuali. Non c’è lo strappo, l’abisso che ci separa da una condizione che sembra, appunto, “fantascienza”. Hume diceva che qualsiasi cosa l’uomo possa immaginare è solo un mettere insieme elementi già esistenti. Ecco, l’attuale produzione ricade in questo prevedibile assemblare enti esistenti e farli muovere in contesti ripetitivi e troppo credibili, troppo reali.
Ultimamente, mi è capitato di leggere un libro di due autori italiani – uno dei quali vive anche al di fuori dell’Italia, in pieno stile Articoli Liberi – che mi ha permesso di guardare il cielo e cantare insieme a Guccini: “Guarda quante stelle questa sera…”. Andrea de Magistris e Michele Perni stanno creando un universo, quello di Velera Exi, che resta un’esperienza che va al di là della semplice lettura. Sembra davvero un mondo tra colonne sonore, dipinti, mappe… Così come la lettura de Il problema dei tre corpi, mi ha fatto pensare a quanto sia strano il nostro universo e quante infinite storie possono nascondersi lassù, tra le stelle e come la fantascienza non sia solo un prodotto occidentale ma può essere ben applicato anche in altri contesti, come quello cinese. Il cosmo è talmente vasto che può contenere qualsiasi popolo con le proprie storie e i propri immaginari: dunque, sfruttiamolo.
Questo flusso di coscienza è partito da una mancanza, dal desiderio di essere altrove. Un altrove in cui le regole fisiche magari non sono rispettate e dove i morti e i vivi possono incontrarsi e provare ad amarsi, solo per scoprire che non esiste una via di mezzo. Gridare che il Muad’dib è vivo e che finalmente la spezia non creerà più guerre su un pianeta deserto. Le storie ci squartano, ci provocano la mancanza di aria, una claustrofobia esistenziale. La fantascienza lo fa, forse, in modo così splendido perché è la messa in pratica, in un linguaggio razionale, di un progetto che è nato con l’uomo stesso: abbracciare l’intera vita, sentirsi parte di essa per poterla tramandare. Rappresenta la realizzazione dell’impossibile, del quasi pensabile, in una forma tale che ci appare plausibile, quindi racchiude la realtà e la espande a proprio piacimento ma sempre restando nell’ordine dell’esistente – a differenza del fantasy. Queste storie che spezzano il fiato sono necessarie, così come lo è questo genere letterario, che dovrebbe però chiamarsi in tutt’altro modo, perché non è possibile contenere la poetica vastità dei mondi in un contenitore così prosaico. Come il Tardis del Dottore, it is bigger on the inside.

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