Un secolo fa circa moriva María Adela Bonavita, a Montevideo, una città-patria che nasconde bene, come tutte le metropoli sudamericane, che sa inghiottire, tagliare teste e braccia, che sa amare di un amore malato, ossessivo, visionario, da alcuni definito magico, ma che di magico non ha nulla, anzi, è per me fin troppo reale, così reale come solo la sofferenza ancestrale di alcune parti del mondo sa imporre. E in una città come questa moriva tragicamente, prima ancora di compiere trentaquattro anni, una donna diventata poeta per caso, perché a scuola una mattina avevano dimenticato la porta della biblioteca aperta.
Un secolo fa non esistevano le cure che oggi salvano tante vite, si moriva per sciocchezze e si viveva per ancor meno. Questa grande sacralità della vita, propagandata dalla chiesa cattolica, aveva influenzato solo alcuni strati della società. A molti livelli la gente non sapeva neanche cosa fosse la resurrezione, e chi arrivava a vedere crescere i propri figli o addirittura i propri nipoti doveva sentirsi fortunato. Non fu il caso di María Adela Bonavita, che dovette desiderare tanto una vita normale, una famiglia, dei figli, ma non ebbe nulla di tutto questo. Trascorse infatti metà della sua esistenza in un letto, o passando da una poltrona all’altra, martirizzata da una malattia oggi curabile ma all’epoca fatale. Una malattia di cui non parlerò perché ciò che mi importa è la vita non la morte di una donna come lei.
Fino alla fine, María Adela scrisse dei versi che si potrebbero definire una espiazione del male, versi visionari, annegati tra mille puntini sospensivi, oltre che di forte valore evocativo, come accade per la buona poesia. Scrisse convulsivamente, notte e giorno, nell’unica posizione comoda, che non le facesse sentire troppo il suo dolore, quello fisico e quello mentale. Scrittura come terapia e come strumento di lotta al male di vivere novecentesco, precursori i suoi lavori in questo senso.
Il suo più grosso problema fu di riuscire ad adeguare al mezzo espressivo la grandezza del suo pensiero, un tentativo fallito sin dall’inizio, sin dal primo giorno in cui le capitò tra le mani una raccolta di poesie, in quella biblioteca, e comprese che avrebbe passato il resto dei suoi giorni a cercare quel confine, quella linea invalicabile tra la parola e ciò che l’ha generata. Forse per questa ragione, di lei troviamo molte riscritture delle stesse opere, una ricerca continua e necessariamente irrisolta. L’unica raccolta pubblicata in vita, grazie all’intercessione di un gruppo di fedeli amici, fu La Conciencia del canto sufriente. Tutte le sue poesie sono state pubblicate postume.
Dopo la sua morte, Luis Pedro Bonavita scrisse: “La sua malattia la perseguitò per tutta la vita. La notte prima di morire mi chiamò per dettarmi la lista delle poesie che avrebbe voluto pubblicare un giorno. Era tranquilla. Indossò una vestaglia di lana, si pettinò da sola i capelli, nel volto non si notavano segni della morte, ma poco dopo una nuova crisi la colpì fatalmente. Si spense piano, morì alle cinque della sera”.