Il fervore religioso e la scrittura incendiaria di Flannery O’ Connor, la santa intelligente


di Edoardo Maresca

Non c’è al mondo, scrittrice più bruciante di Flannery O’ Connor. La O’ Connor spiazza, affila la parola come un coltello su una superficie e sviscera le interiora con tagli pratici, aguzzi, netti, profondissimi.
Addentrarsi nelle arterie della sua scrittura è come percorrere un deserto all’apparenza quieto e finire per essere folgorati, trafitti da una sciabola di luce: cadere in preda a un delirio di consapevolezza feroce come Saulo reso cieco dalla luce di Dio. È una cecità temporanea, quella che scaglia la O’ Connor: toglie la vista ma solo per concederla nuovamente, quasi a simboleggiare un atto di guarigione, di rinascita, redenzione. Un battesimo fatto parola.

Nata e cresciuta in campagna, dopo la laurea in sociologia la O’ Connor si dedicò alla scrittura. Malata gravemente, morì a soli trentanove anni, nel pieno della sua maturità artistica, affermandosi comunque al grande pubblico grazie a due romanzi e diversi racconti. Fu soprattutto in questi ultimi che la scrittrice mostrò il massimo della sua concentrazione e della sua profondità narrativa, consacrandosi come mostro sacro della letteratura americana del XX secolo. Con coraggio e fervore, senza mai scadere nel moralismo più banale, la O’ Connor diede infatti prova di una straordinarietà intellettuale, frutto di una fatica paziente, e dalla cifra inconfondibile. Insofferente all’idea di essere catalogata come “una infelice combinazione di Poe e di Erskine Caldwell”, lavorò la materia della scrittura come un artigiano la propria argilla, attraverso un’osservazione attenta della realtà e del mistero, dalla cui combinazione trasse lo spunto di una verità, mai nominata ma solo restituita per impressioni. Lei stessa affermava che “la mente che sa capire la buona narrativa non è di necessità quella istruita, ma la mente sempre disposta ad approfondire il proprio senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il proprio senso della realtà attraverso il contatto con il mistero.”
Sottile, introversa, spesso timida e dall’aria trasognata, dal viso lungo e triangolare, la fronte alta spazzata da folti capelli corti, la O’ Connor , che per tutta la sua vita ha portato crocifisse addosso un fervore religioso ai limiti dell’ossessione, la brutalità di un male inguaribile e una visionaria lucidità, rielaborò i miti e le parabole antiche in una chiave del tutto moderna e fortemente attuale: all’interno dei paesaggi classici e primitivi della Georgia, fatta di campagne disabitate, di piccole città, di ampi spazi desertici e lunghe strade assolate che sembrano non arrivare mai da nessuna parte, mise in scena l’inesauribile lotta tra il bene e il male, lo scontro titanico tra il peccato e la grazia. Nel farlo, non usò mai un linguaggio articolato né uno stile pomposo: la parola è snodata come un filo di maglia, agucchiata con scrupolo e senza fretta, e ad ogni nuovo giro di ferro, incalza una specie di paura, come di inquietudine.

Leggere il racconto Un cerchio nel fuoco, che si apre sul ventaglio di una prateria rossa e amena nel cuore del Sud protestante, con l’aneddoto di un fatto di cronaca particolarmente lugubre, due donne intente a parlare sotto il portico di una casa e una bambina – precocissima e rabbiosa – che a tutto partecipa e che tutto giudica con una intelligenza cristallina, produce nel lettore un senso funesto: come se qualcosa di doloroso dovesse accadere e portare strazio e tempesta, da un momento all’altro. E quando sulla pagina irrompono tre ragazzi dall’aspetto ambiguo e discutibile, quell’oscuro presentimento si fa improvvisamente convulso: stritola come una morsa di serpente.

Il fiume segue una dinamica analoga: ancora una volta un bambino (appartenente a quell’universo di infanzie rivelatorie e intuitive tanto care a Flannery O’ Connor) che dice di chiamarsi Bevel, come il famoso predicatore che conduce i suoi sermoni lungo il fiume, ma che Bevel in realtà non si chiama affatto. Ha lo sguardo malinconico, è silenzioso, porta, dentro di sé, un senso di stupore e i segni dolenti di una parabola fatale e definitiva. A differenza delle creature che lo attorniano – la madre, il padre, la babysitter – che sono uggiose, quasi astratte dalla realtà: alcune in un verso più materialista e distratto, altre in un modo più fanatico e devoto. Toccherà al bambino riconoscere il privilegio della verità, scontandola a un prezzo altissimo e quasi inevitabile.

Nell’intreccio di storie che la O’Connor ci ha lasciato come testimonianza della sua grandezza artistica, troviamo vagabondi dall’aria poco raccomandabile, predicatori ambulanti, “negri”, vecchi che si ritengono detentori di un compito di moralità, adulti travolti da ansie e desideri, bambini che portano negli occhi e nei gesti ombre di intelligenza solenne e una saggezza profonda e ineguagliabile. Personaggi comuni, ma sempre colti nel disvelamento d’una pietà, d’una lotta interiore, di fronte al mistero della grazia. La religione pervade (quasi) tutto, in Flannery O’ Connor, attraversa la lingua e le trame, ma mai in maniera pedante o eccessivamente morbosa: vi serpeggia in mezzo con un soffio di messianesimo esaltante che trasforma povere creature in figure sciamaniche e quasi profetiche, strattonandoli nella colpa per poi guidarli all’espiazione e alla redenzione.
Dov’è sta allora Dio, nelle opere di Flannery O’ Connor? Si potrebbe dire che sia ovunque e che non sia al tempo stesso da nessuna parte. La devozione religiosa, se la si coglie, traspare forse più dalle parole, dagli sguardi, da quei minimi particolari che danno potenza ai personaggi, dal tratteggio dei paesaggi, infiammati da colori sanguigni e passionali, come l’argilla delle campagne del Sud. Flannery O’ Connor non vuole diffondere la parola di Dio, ma solo indagare il grembo sotterraneo di un’umanità dolente, in bilico tra l’uncino della colpa e il desiderio di salvezza. Aleggia, in questo modo, nelle sue storie, un senso di imperscrutabilità lontana, che rimane lontana apposta: fa da sfondo agli eventi e ogni tanto si permette qualche incursione.

Ciò che Flannery O’ Connor fa, davvero, in fondo, è scombussolare gli animi, produrre squarci, aprire in due, con una lama di coltello affilata e sottilissima, la materia carnale. Si scopre allora di sanguinare, ma solo a lettura conclusa, quando si è staccato lo sguardo dall’ultimo punto e si scivola nello spazio bianco con tremendo orrore.
Sue queste parole, che danno prova dell’impegno e della costante dedizione alla scrittura, intesa come arte, fede e pratica di vita, che Flannery O’ Connor ha esercitato muovendosi, per tutta l’esistenza, in un costante dialogo tra Dio e sé stessa: “Per favore, Dio, aiutami a essere una brava scrittrice… Se devo faticare per il mio lavoro di scrittrice, caro Dio, lascia che sia al Tuo servizio. Mi piacerebbe essere santa, in modo intelligente.”

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