Ogni mattina Maeve sedeva davanti alla porta della sua camera da letto aspettando che qualcuno arrivasse per riportarla a casa in Irlanda. Solo le infermiere però attraversavano quell’uscio per sottoporla ai controlli quotidiani. Quella non era la sua casa. Maeve non viveva più a Dublino da mezzo secolo. Quando aveva compreso che non sarebbe più riuscita a vivere da sola, Maeve aveva lasciato il suo appartamento e si era trasferita in un ospizio dove mani anonime si sarebbero prese cura di lei fino al termine dei suoi giorni. Traslocare non era stato complicato. Maeve aveva deciso di portare con sé il minimo indispensabile. Tra il suo appartamento e l’ospizio poi non c’era molta distanza, entrambi si trovavano a Manhattan. Già da tempo aveva abbandonato l’abitudine di innaffiare le sue giornate con abbondanti dosi di whisky. Il fumo poi se l’era quasi del tutto scordato. Ora che la tenevano sotto costante osservazione, alcol e tabacco le mancavano come non mai. Non le mancava la scrittura, però. E di certo in quella struttura non le avrebbero impedito di scrivere. Le stavano vietando di morire o perlomeno tentavano di ritardare il più possibile l’inevitabile. Era questo a seccarla. Aveva scritto per tutta la vita. L’aveva fatto per niente, nessuno si ricordava di Maeve. Anche vivere le mancava parecchio, quello che faceva ora era al massimo sopravvivere. Maeve si guardava raramente allo specchio e quando ciò accadeva a stento riconosceva i tratti di quel suo viso minuto che in tempi lontani aveva fatto perdere la testa a parecchi uomini. Sei vecchia, cara la mia Holly! Così sospirava ripensando al suo amico Truman e al suo romanzo più famoso. Tra le redazioni delle riviste era girata voce che l’eroina di quel libro fosse ispirata a lei. Questo però Truman non lo aveva mai confermato in pubblico. Restava il fatto che Maeve era stata un creatura affascinante, capace di sfuggire a qualunque definizione. Nessuno era mai riuscito a imprigionarla. Né gli uomini con le loro assurde pretese, né gli editori con gli occhi puntati esclusivamente alle classifiche. Ora però era vecchia. Il suo volto tradiva un malcelato fastidio tutte le volte che le si parava davanti una sua immagine giovanile. Maeve rideva di quelle che consideravano le rughe medaglie vinte sul campo. Solo chi la bellezza non l’ha mai posseduta pretende di sfruttare la guerra che si combatte ogni giorno in questa vita per giustificare la vecchiaia. Rispetto a questo pensiero, Maeve non arretrava di un solo passo. Con la fierezza irlandese che le scorreva nel sangue, si limitava a una decisa scrollata di spalle verso chi la pensava diversamente. Con sé in quel ritiro aveva portato le bozze di un romanzo, l’unico che avesse scritto. Tanti racconti, tanti articoli certo li aveva scritti per la rivista che le aveva dato da vivere e di cui era diventata una stella luminosa. Una penna affilata che tutti riverivano. Mai un romanzo, però. Era arrivato nell’età della pensione e riguardava un sentimento di cui si vergognava. Non era certa che lo avrebbe fatto pubblicare, sentiva di doverlo tenere presso di sé nel caso qualcuno fosse venuto a prenderla. Quelle pagine erano la prova che non si era dimenticata di Dublino. Della sua Irlanda. Lei che mai aveva provato nostalgia ora arrossiva nascondendo a se stessa quel viso macchiato dai segni del tempo. La nostalgia non le era mai appartenuta e adesso che stava prendendo possesso della sua testa, Maeve non sapeva come gestirla. Di questo era intriso il suo unico romanzo.
Come in un incubo ricorrente, la protagonista della storia di Maeve ritornava a Dublino dopo una vita trascorsa altrove e quelli che l’avevano vista bambina non ne erano per nulla felici. Considerandola come una estranea, le indicavano la porta invitandola a tornare da dove era venuta. Quella era casa loro, non sua. Il terrore intimo di Maeve era quello. Ciò che la stupiva però era che soltanto adesso in prossimità della fine quella paura la stesse aggredendo senza concederle un attimo di respiro. Quanto deploro questa mia inutile vecchiezza, ripeteva a voce alta agitando nell’aria quella sua mano minuta ormai coperta di macchie scure. Maeve si sentiva in colpa. Se ripensava alla sua adolescenza trascorsa in Irlanda, pochi erano i ricordi che vividi le rimbalzavano agli occhi. E non sembravano affatto belli. Suo padre si era battuto con coraggio contro gli inglesi per liberare la sua terra e per questo aveva patito il carcere. Sua madre condivideva le stesse battaglie politiche e orgogliosa aveva atteso il suo ritorno crescendo da sola una prole numerosa. Erano stati anni di miseria indicibile, senza contare i soprusi da parte degli inglesi occupanti. Solo quando l’Irlanda si liberò da quel giogo e divenne un paese libero e indipendente, la famiglia di Maeve poté riunirsi. Fu allora che suo padre divenne il primo ambasciatore irlandese negli Stati Uniti. La famiglia sarebbe presto partita. Da quel viaggio cominciavano i ricordi di Maeve, ciò che era stata la sua vita prima di imbarcarsi sul piroscafo per New York sembrava avvolto da una fitta coltre di nebbia. Solo raramente un raggio di sole faceva breccia attraverso tutto quel buio illuminando pochi sparuti e all’apparenza insignificanti frammenti della vita di Maeve a Dublino. E in genere quelle memorie frammentate erano avvolte da un persistente alone di tristezza. Maeve sentiva che quella sua adolescenza irlandese era stata brutta e a quel pensiero l’accalappiava un insopprimibile imbarazzo.
Ricordava soltanto il resto, tutto quel che era accaduto da quando aveva messo piede a New York. Ogni dettaglio, compreso il più insignificante. Ogni istante, dal più gioioso al più triste. Il diploma prima e poi l’università. Il primo contratto con una rivista, i primi soldi guadagnati. L’indipendenza, la sua libertà. I genitori che la salutavano da un’altra nave e dopo dieci anni di permanenza all’ambasciata irlandese se ne tornavano a casa. Il primo incarico col New Yorker e l’ascesa vertiginosa come scrittrice di punta della rivista. Le feste, gli amici scrittori. Truman e quella sua vocetta insopportabile che la faceva così tanto ridere per le freddure che sputava. I servizi fotografici e quella sua bellezza dal candore etereo che pareva arrivare dall’Olimpo. Il matrimonio sbagliato, le stanze d’albergo che cambiava in continuazione perché temeva di non sentirsi a casa da nessuna parte. L’alcol, l’incapacità di tenere sotto controllo i suoi stati d’animo. Tutti attorno a lei morivano uno per volta, tutti quelli che aveva amato. L’addio al lavoro, la pensione. Quel suo appartamento preso in affitto nel quale si sentiva a disagio. L’ospizio. Le attese che qualcuno passasse per riportarla a casa. La certezza ora che nessuno sarebbe arrivato perché una casa non l’aveva mai avuta. Eppure quella corsa frenetica che era stata la sua vita non le era per nulla dispiaciuta. Non l’avrebbe scambiata per niente al mondo con quella di qualsiasi altro. Non avrebbe spedito quel suo manoscritto a un editore, quel romanzo sarebbe morto con lei. Si fece portare un foglio di carta da pacchi e uno spago. Vi avrebbe avvolto dentro quel frutto indesiderato e lo avrebbe fatto spedire presso la piccola università alla quale aveva già lasciato tutte le sue carte e i suoi libri. Mentre confezionava le pagine coperte dalla sua fitta elegante scrittura fu trasportata all’improvviso lontano, nella piccola cucina di Dublino in cui era cresciuta. Era la sera prima della partenza e sua madre avvolgeva con cura i pochi libri di Maeve e delle sue sorelle sotto gli occhi attenti del padre che faticava a nascondere quanto fosse fiero dell’amore che le sue ragazze nutrivano per lo studio. Si respirava un clima di gioia frenetica per la nuova vita sulla quale quel viaggio spalancava le porte. Maeve si era del tutto scordata di quell’ultima sera felice in Irlanda. Le lacrime cominciarono a scendere sul suo viso coprendo i segni dell’età. Per un attimo Maeve era tornata a essere Holly, la splendida creatura di Truman. Non era per la casa in Irlanda che sentiva nostalgia. La sola casa che le mancava era stata per un lampo quella che aveva scorto negli occhi dei suoi genitori intenti ai preparativi. La stessa che era svanita quando loro l’avevano lasciata libera di camminare con le sue gambe. Non sarebbe più tornata, quella casa. Così era per ogni cosa. Ora si sentiva a posto. Chiuse il pacchetto e lo consegnò a una infermiera affinché lo spedisse. Non aveva più bisogno di aspettare che qualcuno bussasse alla sua porta e la portasse via. Maeve era dove doveva essere, alla fine della strada che aveva percorso.