Benvenuta, Bianca

di Selene Pascasi

Succede, a volte, di non respirare per paura di perdere le emozioni che trattieni dentro e che vorresti mantenere sequestrate nelle ossa. Accade quando a svegliarti è un sogno innocente, che resta impigliato alle ciglia finché lo schiaffo del sole non ti costringe a scaraventarlo via. È che nei sogni amiamo chi non conosciamo, culliamo figli che non abbiamo. Viviamo. Ma quanti attimi trasciniamo nel reale? E se la nostra esistenza fosse illusione? Me lo chiedo, quando precipito negli abissi dei pensieri. Magari un giorno riuscirò a comprendere il tempo, a decifrarne le smorfie imperfette mentre mi guarda per dirmi che ho ancora una carta da giocare. Intanto, come radice, bevo il destino dalla terra cibandomi di silenzio. Da questo folle percorso voglio verità.
Il suono del campanello mi scuote i sensi intorpiditi.
“Signora Paola Ansaldi, mi apre? Devo darle una cosa”.
“Certo. Sali, terzo piano”.
Un istante ed era già lì, sull’uscio che Paola aveva appena aperto. Neanche il tempo di sporgere il busto curvo e sottile sul pianerottolo, che quella bimba lentigginosa le catapultò tra le mani un fascio di fiori. Il suo viso le parve familiare. Scorse in lei tratti di un passato che le sfuggiva. La piccola apparteneva al suo ieri, ne era certa. Uno sguardo e si faceva strada fra le amarezze e le speranze della gente, sfogliandone l’essenza con sensi ignoti persino a sé stessa. E quella voce, quelle movenze, in qualche modo le appartenevano.
“Anche questa lettera è per lei”.
La piccola lasciò cadere il foglio e scappò via. Chissà dove sarebbe andata. Se fosse stata una bambina come tante sarebbe corsa a giocare, ma non lo era. La abitava un indecifrabile mistero. Magari, pensò Paola, andrà a rifugiarsi ai piedi di una quercia, inventerà storie, le inciderà su foglie giganti e le affiderà al vento pregandole di raggiungere le notti di chi versa nel buio vuoti incolmabili. Artefice di sogni. Ecco, chi era. E la sua casa? Forse, uno spicchio di luna. Una luna di carta da cui scrutava la terra. Una visione onirica, dannatamente vera, che la affascinava. Osservarsi vivere era sempre stato il suo cruccio. Paola aveva tentato in mille modi di estraniarsi dal corpo per giudicarsi e vomitare i sogni abortiti e le stupide romanticherie colpevoli di averle graffiato le ali. Non ci era mai riuscita. A bloccarla, il timore di guardarsi dentro. Se ne avesse avuto il coraggio, avrebbe potuto assistere al cortometraggio della sua vita anche se quella visione le avrebbe infangato a fuoco il futuro. Forse per questo, ogni tentativo di evadere le scagliava nelle vene bagagli di silenzi.
Maledetti silenzi. Silenzi e nessun rumore d’amore. Men che mai di libertà. Quella creatura custodiva la saggezza di una donna immune al tempo. Una donna. Assurdo! Che poteva saperne, a quell’età, delle lame che ti piegano i polmoni quando tutto crolla e vacilla l’equilibrio in cui galleggi per non arrenderti? Nulla. Magari aveva conosciuto il pianto, sì, ma il pianto dei bambini. Il pianto degli adulti, no. Allora da dove colava la vita che serbava? Se la piccola fosse stata una nostalgica proiezione dei suoi pensieri, un parto isterico del desiderio viscerale di essere madre? Se alla porta non avesse bussato nessuno? Ipotesi folle, imponente, che la scavò dentro fino a monopolizzarla.
Comprese. La piccola era un intervallo magico dei suoi giorni giovani che volevano dirle qualcosa. Ma cosa? Si addormentò presto quella sera.
A svegliarla, una nenia: Promesse bagnate dal tempo. Ricordi sbiaditi. Caramelle. Non riconosco le mie rughe. Natali dissolti, i miei. E ancora: ogni volta che ne sentirai il bisogno, pronuncia il mio nome e verrò da te. Ti basterà voltarti e potrai stringermi forte, come una madre.
Isteria. Paola si difese cancellando dalla memoria quella strana giornata.
Trascorsero molti anni, Bianca non tornò più, ma Paola non riuscì mai a gettare nel pattume quel che restava del bouquet di iris e tulipani che le aveva recapitato. Era la prova tangibile che i fiori, almeno quelli, esistevano per davvero. Ormai secchi, erano rinati come segnalibri avvolti in velluti amaranto. Guardarli la scaldava. La lettera che li accompagnava, no. Quella non l’aveva letta. La temeva. Ma era anziana e malata. Doveva farlo. L’aprì e riconobbe la grafia in un battito di ciglia. Sfilò gli occhiali, affidandoli al tavolo, chiuse lentamente gli occhi e la lesse senza leggerla, protetta dal sipario dell’esistenza.
Portami questa lettera prima che io vada altrove…
Tremarono le mani di Paola, ripiegando quel foglio. Bianca era la piccola sé, tornata da un futuro mai vissuto per consegnarle la lettera. Strapparle un sorriso. L’ultimo. Dalle sue mani stanche caddero, all’unisono, la lettera e la vita. Un respiro abbandonò il suo corpo e un respiro nuovo scelse Bianca per abitarla e consegnarle una seconda vita. Forse, un destino migliore.
“È nata!”
“Benvenuta, Bianca”.

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