L’intuizione geniale e letale di John Kennedy Toole, il suicidato dalla società


di Franco Malanima

Uno dei miei mali psicofisici è l’ulcera, ho iniziato a soffrirne quando prendevo quintali di antiffiammatori per curare un altro male, quello alla spalla, dovuto al baseball. La mia ulcera, qualche volta, l’ho chiamata valvola. Si scatenava quando mangiavo le cipolle, cibo da fattucchiere, altro argomento che qui non c’entra, e quando la valvola si apriva non c’era verso di farla richiudere, il processo era avviato, a volte mia moglie o mio fratello mi hanno dovuto portare in ospedale.
Ci sono personaggi letterari nei quali ritrovi i tuoi mali, comprendi che qualcun altro ha vissuto la tua stessa esperienza, puoi investigarla, scoprire qualcosa a cui non avresti mai pensato prima di quella lettura. Appena ho letto la parola “valvola” nel romanzo A Confederacy of dunces, scitto da John Kennedy Toole, morto suicida prima di vederlo pubblicato, il processo si è avviato, ma non quello dell’ulcera, un altro processo, quello che mi fa avvicinare a un autore e alla sua vita per cercare di comprendere la mia.
A mezzo secolo dal suo suicidio, avvenuto il 26 marzo del 1969, a trentun anni, Toole mi ha insegnato che ci sono malattie comuni a tutte le epoche. Il marcio che ci circonda ha un nome, Confederacy. Toole lo rende ridicolo, abbatte le inconsistenti impalcature che lo sorreggono.
La sua creazione geniale si chiama Ignatius J. Reilly. Questo ragazzone rozzo e anticonformista instilla nella mente del lettore il senso dell’assurdo che muove ogni singolo meccanismo del sistema malato di cui facciamo parte: “Cercasi elemento dinamico, fidato, portato ai contatti umani. Signore santo, vogliono un mostro!” Ignatius permette a Toole di vendicarsi e forse di posticipare il suicidio, se è vero che tutti quelli che si ammazzano non lo fanno all’improvviso, ma dopo averlo premeditato a lungo. “A nessuno piace morire ammazzato. Se si riesce a trovare un’altra soluzione, è meglio”, questo l’ho scritto io da qualche altra parte.
Ignatius rutta, scorreggia, impreca senza guardarsi intorno; tratta sua madre come una schiava, rivelando tra le righe che il loro è un rapporto di odio alimentato dal fuoco di un amore malato; riesce a manipolare colleghi e capoufficio, li fa ribollire nel loro ego; ci rivela il motivo del nostro fallimento. Si fa critico del fallimento, dell’ipocrita benessere a tutti i costi, delle effusioni sdolcinate e esaltate. Non si perde neanche uno dei film scadenti dati al cinema ogni settimana e insulta attori e regista ad alta voce, diventa lo zimbello della comunità, ma sa che quella stessa comunità un giorno lo userà per attirare i turisti. E infatti oggi Ignatius è uno dei simboli di New Orleans, città in cui è ambientato il romanzo.
A Confederacy of dunces ha meritato un Premio Pulitzer postumo. Postumo perché solo dopo undici anni dalla morte di Toole sua madre è riuscita a farlo pubblicare, insistendo ogni giorno alle porte di Walker Percy. Commovente l’introduzione di Percy, in cui racconta che non aveva dato mezza lira al manoscritto prima di convincersi a leggerlo. Il romanzo è uscito in Italia col titolo Una banda di idioti (Marcos y Marcos 2004). La parola italiana “banda” suona bene ma non riassume nella sua totalità il senso che l’autore ha voluto dare alla storia con la sottile definizione dell’intesa malvagia tra idioti che si riuniscono e isolano il genio.

In spagnolo infatti lo hanno tradotto con “congiura” (La conjura de los necios, Anagrama 1982). “Io sono un anacronismo vivente,” dice Ignatius/Toole, “questo la gente lo capisce e mi diventa ostile…” E gli idioti sono quelli descritti da Jonathan Swift, quelli che “si riuniscono in una confederazione ogni volta che riconoscono un genio”. Confederacy è anche una metafora, un chiaro riferimento alla Confederazione degli Stati Uniti, una messa alla berlina inconfutabile dell’ipocrisia della società statunitense.
La lettura di opere come questa mi dà una speranza, mi fa illudere che prima o poi ci risveglieremo dall’intorpidimento imposto dall’algoritmo a cui obbediamo e sentiremo la puzza dell’immondizia che ci danno da mangiare. Toole aveva capito tutto, aveva visto la verità, e come tutti coloro che la vedono così da vicino e comprendono che saranno soli al mondo da quel momento in poi, o poteva impazzire o uccidersi.
A dire il vero, c’era un’altra cosa che nella sua situazione avrebbe potuto fare: raccontarla. E ci ha provato, con una accuratezza quasi ossessiva, Toole ha creato un personaggio disgustoso e spietato, come la verità, che in apparenza non compie alcuna evoluzione e non rientrerebbe pertanto nelle grazie della critica ascetica, ma solo a una prima analisi affrettata. Leggendo bene il libro, ho capito che è il passato di Ignatius a rivelare il cambiamento, un cambiamento avvenuto prima che noi lo incontrassimo, quando era ragazzo e ha sofferto per la morte del suo cane, Rex. Un avvenimento che solo lui ha vissuto come tragico: mentre preparava i funerali in giardino in presenza dei bambini del quartiere, sua madre dalla finestra gli urlava di gettare il cane nell’immondizia e di rientrare. Il disprezzo per il mondo che lo circonda, allora, non è altro che il disprezzo per quella donna? Non lo sapremo mai perché la lettera ai suoi genitori, ritrovata accanto al corpo di Toole, non è stata mai pubblicata. Anzi, sua madre, quella stessa madre che per anni aveva perseguitato gli editori di New Orleans, pare l’abbia distrutta. O fatta sparire. Sparita come il mistero della morte, come il manoscritto originale.

Secondo Michele Prisco nell’infanzia c’è la chiave di tutto, è nell’infanzia che un personaggio ritrova le ragioni delle sue azioni, e per il suo creatore vale la stessa regola. La vita di Toole è stata una lenta costruzione del suo suicidio, il rapporto morboso con la madre, una storia di malattie mentali di vari membri della famiglia, e solo in ultimo il rifiuto delle case editrici. Quando l’editore Robert Gottlieb scrive a Toole che il romanzo non ha un vero motivo di essere, nonostante l’originalità del personaggio, non lo sta ammazzando. Probabilmente, Toole era già morto.
Come li ha definiti Antonin Artaud, in uno dei libri migliori per comprendere la mente geniale di un folle (Van Gogh il suicidato della società, Adelphi 1988), gli individui come lui non si uccidono con le proprie mani, ma è come se fosse la società a ucciderli, lentamente, con le sue pressioni, il suo silenzio, l’ostinata incomprensione nei confronti di chi vede lontano, pericolosamente più lontano. Molto probabilmente, John Kennedy Toole fu un suicidato della società, anzi, dalla società.

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