C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico


di Subhaga Gaetano Failla

C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico.
Giovanni Pascoli, L’aquilone

È l’alba del primo giorno di primavera del 2023. Milano. Nelle due alte finestre rettangolari appare il cielo chiaro, il tetto di tegole con il fumo di un comignolo e il grande balcone dell’elegante e austero edificio di fronte. Un colombo vola compiendo un semicerchio nel mio sguardo. Si posa sulle tegole che sovrastano una grondaia scura, imponente, ripiegata in tre successioni come torpidi serpenti.
La casa è silenziosa. Anche la strada torna nel silenzio, corrotto solo per poco dal lavoro di un camion della spazzatura. I bambini della scuola vicina dormono ancora. Tra un’ora e mezza il loro vociare s’innalzerà in questa parte di mondo.
Avevo quattordici anni. In un giorno di primavera camminavo con mio padre sotto il cielo luminoso di Roma. Dalle finestre aperte all’aria nuova e dai jukebox giungeva una canzone dei Dik Dik che parlava del primo giorno di primavera. Mia sorella ci aspettava nella sua casa. Studiava a Roma, all’università. Il mio sguardo miope si riempì del caleidoscopio della metropoli, nel fluire sonoro di macchine voci autobus. Ricordo i sorrisi di Valeria nell’accoglierci e l’espressione contenta e taciturna di mio padre. In una sorta di rito di iniziazione, mio padre portava noi figli a Roma, dalla Calabria, nell’età di abbandono dell’infanzia.
È un vasto brusio ritmico. Dal silenzio delle pause, dapprima impercettibili, ne riconosco nel trascorrere del tempo, negli anni e nei decenni, le ripetizioni, il ritorno identico e differente, la ciclicità che incanta e lascia a bocca aperta, come adesso mentre contemplo l’alba di due giorni dopo, è il 23 marzo. Un colombo bianco si posa sulla grondaia, poi spicca un volo verso il secondo piano. L’elegante palazzo di fronte sembra osservare insieme a me, dai suoi occhi di finestre e di balconi, la nuova luce.
Di sera sprofondo nei cunicoli della metropolitana. Alla fermata Duomo una moltitudine di persone si precipita nei vagoni, è una nuvola di foglie spinta in folate nelle porte scorrevoli e portata via dal turbine del treno. Immagino l’immensa piazza vuota e il Duomo liquefatto di Buzzati. Ho da poco lasciato il crepuscolo di Corso Italia, dopo una visita imprevista alla chiesa di Santa Maria dei Miracoli. Mi sorprende il dipinto trecentesco di una Madonna con Bambino e ancor di più la statua di Santa Teresa di Lisieux. D’un tratto torno ancora una volta in una sera di primavera del 1934, nelle pagine della Leggenda del santo bevitore di Joseph Roth, sulle rive parigine della Senna e sotto i ponti. Un signore ben vestito, particolarmente devoto alla statuetta della “piccola Teresa di Lisieux” d’una chiesa di Parigi, giunge in quel luogo di reietti.
Abitavo in una vecchia casa posta su tre piani, nel centro storico di una città calabrese. La casa era molto fredda sin da ottobre, d’inverno l’ultimo piano diventava gelido e d’estate infuocato. In primavera avevo comprato una bicicletta rossa. Faceva bella figura in equilibrio in cucina, nella stanza con un tavolo bianco e quattro sedie, un fornelletto sistemato sopra un ripiano con accanto una bombola blu e una padella pendente da una grata inchiodata al muro. In quel maggio del 1986 danzavano nell’atmosfera particelle atomiche sfuggite da una centrale nucleare, arrivate in Calabria nel cielo primaverile sospinte dai capricci delle correnti aeree, dopo un viaggio di migliaia di chilometri. Io uscivo di casa con la mia bicicletta, sfrecciavo lungo la discesa che dalla parte alta della città mi portava verso la periferia e verso il mare, e nell’aria celeste, nel ronzio delle ruote, nel vento della corsa che mi scompigliava i capelli, in tutta quella luce, cantavo a squarciagola.
Talvolta è un rombo, sembra immenso. Diventa più difficile percepirne le sospensioni, le pause. Ne dimentico per un poco la caratteristica principale, il suo ripetersi ciclico, e mi pare tutto soltanto crudelmente nuovo, non ne comprendo il suo fluire, il suo essere senza scopo. E allora mi affanno nella lotta e divento schiavo. Guardo il cielo biancastro del 24 marzo. Il grande tetto di fronte appare adesso assopito e letargico, persino le tegole hanno un respiro nascosto, la luce dell’alba è velata da un sottile sipario.
Sono di nuovo seduto alla finestra. Il cielo dell’alba è insolitamente limpido e sereno dopo le piogge di ieri. Ma il sole tarda a comparire oltre le tegole su cui brulicano i colombi. Un trucco dell’ora legale scattata due giorni fa. Per imprevedibili itinerari della memoria, mi torna in mente un remoto cielo notturno.
Avevo vent’anni. Abitavo in un paese della costa tirrenica calabrese, ai confini nord della regione. Mi ero trasferito lì con la famiglia, dopo il pensionamento di mio padre. Nel paese di mare, mio luogo di nascita, avevo trascorso i primi anni di vita. Larghe e numerose scale portavano in alto fino al castello. La spiaggia chiara di sabbia e ghiaia si abbassava repentinamente verso il mare e i fondali in pochi passi divenivano profondi. La costa rocciosa era spezzata da insenature e grotte marine. Gli scogli sommersi, costellati da vividi ricci neri, si adombravano di alghe. Talvolta ne portavo qualcuna a riva, strappata dalla pelle viscida di uno scoglio. Mi piacevano principalmente le alghe rossicce. Vi immergevo il naso dentro, in quel ciuffo tenero intriso d’acqua, e inspirando forte e socchiudendo gli occhi sentivo gli umori intimi del mare.
Un giorno decisi di andare in un paese costiero vicino. Avevo letto la notizia di un incontro di compagni rivoluzionari, una festa serale sulla spiaggia, con qualche dibattito, tanta musica e vino rosso in abbondanza.  Una decina di chilometri in autostop. Mi infilai nella chiocciola di una minuscola Fiat 500. L’autista scambiò con me poche necessarie parole. Speravo di fare amicizia con qualcuno, magari l’incontro fortunato con una ragazza. Conoscevo allora già da tempo la gioia della solitudine e l’amarezza dell’isolamento.
La musica era bella e appassionata e il vino buono e forte, da stordire. Nessuna nuova amicizia, nessuna ragazza. Quando si spense l’ultimo falò e la spiaggia divenne deserta e silenziosa, srotolai il mio sacco a pelo e lo deposi sulla sabbia, evitando nel buio la riva di ciottoli.
Chiuso nel bozzolo di sacco a pelo, da cui spuntava soltanto l’ovale sottile del mio viso, ascoltai il mormorio del mare. Il lieve ondeggiare aveva il ciclico ripetersi della risacca. Tra l’andare e il tornare di ogni piccola onda si percepiva una brevissima pausa di silenzio, simile alla minima sospensione del respiro tra una inspirazione e una espirazione. Guardai il cielo stellato. Volevo portare quell’immagine nel sonno. Poi tolsi gli occhiali e li posai sul mio zaino. Oltre le palpebre abbassate, conservai per un attimo l’immagine limpida delle stelle e quella sfocata del mio sguardo miope senza occhiali. Mi addormentai.
Un’altra alba milanese, un altro ciclo di rotazione del nostro pianeta. Guardo alla finestra il cielo azzurro, seduto al mio tavolo. L’antenna televisiva sul grande tetto spiovente scintilla già di luce. Il sole sta per spuntare, nascosto ancora  dal palazzo di fronte. È un vasto mormorio e un oscillare, è il ripetersi di una danza sempre identica e sempre diversa. Un colombo zampetta sulle tegole.  

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