Ich bin Mensch, ich Liebe
Den Tod und Liebe
Das Leben
Egon Schiele
Poco dopo la mezzanotte d’un giorno d’estate ricevo un’email. Sono in un hotel viennese che su un lato dà sul Danubio e sull’altro su un paesaggio lunare estratto da De Chirico o J.G. Ballard, futuristico senza futuro, sagome svelte d’umani adombrati, sbigottiti. La mittente era presente al mio intervento di ieri. Non lo condivide ma lo trova “necessario”; le ha fatto venire in mente un artista dell’azionismo viennese. Una breve navigazione in rete rivela immagini di corpi mutilati, vernice come sangue, orrori gratuiti e ripugnanti. Mi sento ferito. Poi m’arrabbio. Poi scende la tristezza. Era davvero così traumatizzante il mio intervento? M’era sembrato del tutto normale. Breve meditazione guidata ispirata ai discorsi del Buddha sulla morte (certezza del suo accadere; incertezza del momento in cui accadrà). L’elogio della disperazione (da Beckett) e dell’urgenza (dalla seconda metà trascurata dell’orazione I have a dream di Martin Luther King). Antidoti alle consolazioni fatue della speranza, tema del congresso. Avevo mostrato il video della canzone dei Devo It’s a beautiful world. Viviamo in un mondo meraviglioso, dicono i versi, bella gente dappertutto. Le immagini mostrano il Ku Kux Klan, Hiroshima e i poliziotti americani alle prese con il loro passatempo prediletto: picchiare, arrestare e uccidere i neri. Avevo parlato della speranza come il più grande dei mali, visto che prolunga il tormento umano. M’ero lagnato scanzonatamente del fatto che molta psicologia umanistica è subordinata a un cristianesimo roseo e che non v’è garanzia alcuna nonostante la lettera ai Corinzi 13:13 che ci assicura che fede speranza e carità perdurano nel tempo. Stanco del continuo rimuginìo, alle due del mattino la tristezza fa posto a una gioia che non mi so spiegare e che mi tiene sveglio e lieto d’essere al mondo.
Egon Schiele mi dà le vertigini. Lo stato sonnambulo con cui metto piede il giorno dopo nel Leopold Museum mi rende permeabile all’intensità di un’arte inaccessibile ai riposati consumatori di ornamenti. Privo di difese, vengo assalito dalla meraviglia inquietante di 40 dipinti e 180 disegni. E da alcuni versi di poesia:
Gli artisti avvertono facilmente la grande luce tremolante,
il calore, il respiro degli esseri viventi,
l’arrivo e la scomparsa d’ogni cosa.
Come fa tale esuberanza a coesistere con così tanta audacia e rigore? Il clima culturale/artistico di una Vienna di fine secolo ne fu complice – fonte lieta e contaminata di sovversioni, innovazioni e contraddizioni. Città d’inventori audaci: Freud, Mahler, Schoenberg – centro multietnico e dinamico di fusione artistica e intellettuale. L’opposto della Vienna odierna che come tutte le città europee idolatra l’endogamia e la ripugnanza per i profughi.
Schiele viene associato a Klimt, ma mentre Klimt disegnava per rilassarsi, limare la tecnica e allenare l’occhio, Schiele lo faceva per capire il mondo e se stesso e con il medesimo impegno dedicato alla pittura. In alcuni disegni (ad esempio Nudo femminile, 1910) si nota ciò che egli stesso descrive come ‘luce interiore che risplende dal corpo’. La descrizione non lascia dubbi, ma i curatori si sbracciano a descrivere la luce come aureola e addirittura radiosità astrale, una tradizione interpretativa che fa d’ogni artista uno spiritualista della domenica. Ma la luce interiore delimita; è frammento, folgorazione dell’imprendibile separazione/alterità della figura umana. Luce riflessa sulla vernice, non sulla carta, che accentua la profondità e la luminescenza del corpo. È il corpo a venire sostanziato dalla luce, spiega Jennifer Dyer. Le figure di Schiele sono il risultato del dinamismo di forze attive. I corpi non sono fissi o sostanziali (sub-stans) – nessuna realtà vi soggiace. Sono fatti di luce e vanno visti come luce, ma non come puri effetti ottici. La luce è sia visiva che termica. Ci permette di vedere e nel contempo produce calore. Le figure sono visive e palpabili. Il calore è passione, emozione, sentimento profondo. Trasuda un erotismo impenitente che ci coinvolge nella passione finchè non possiamo che diventare partecipi. A meno che decidiamo d’adottare la prospettiva del guardone. L’accusa di oscenità rivolta a Schiele (come al suo contemporaneo Freud per la pubblicazione nel 1905 dei Tre Saggi sulla Sessualità) è reazione nevrotica all’invito d’abbandonare la posizione conveniente di guardone e assumere quella di partecipante.
Nell’antica Grecia a gennaio si celebrava per quattro giorni Lenaia, la festa annuale in onore del dio Dioniso. Dioniso è uno con Ade, ci ricorda Eraclito, ed è per tale motivo che le baldorie dei celebranti durante la festa orgiastica – più in là nel tempo tramutate in gare sportive – non sono oscene ma sacre. Le immagini di Schiele, legate alla finitezza e alla mortalità, catturano arti divaricati, vulve villose, chiome arruffate. Rendono visibile ciò che non vediamo, che non ci azzardiamo a notare o su cui sorvoliamo, la danza invisibile pulsante nell’involucro di luce e calore di un singolo individuo – l’invisibile all’interno del visibile. Fenomenologia pura – tattile, visiva – un campo di forze libero dalla tirannia e dall’astrazione dell’essere.
I numerosi autoritratti di Schiele, mise-en-scènes scarne e contorte, rielaborate da molti artisti, dai danzatori butoh al David Bowie della copertina di Heroes. Fra le prime a indagare la molteplicità nell’autoritratto, identità aperte a una rosa di accezioni – interno/esterno, mondano/spirituale, vita/morte, le raffigurazioni di Schiele complicano e sorpassano il Doppelgänger della letteratura novecentesca, una nozione tristemente relegata al folclore nella nostra epoca d’insolenza positivista e presunta autenticità.
Rincontro Schiele un anno dopo alla Royal Academy of Arts di Londra accompagnato da un’amica artista e scopro altri aspetti: “Non mi sento punito ma purificato!” esclama l’artista ventiduenne nella cella della prigione di Neuelebgbach, arrestato per presunta “immoralità pubblica”. “Per l’arte e per le persone che amo sopporterò qualsiasi cosa volentieri fino alla fine!” scrive nella primavera del 1912 a margine di un autoritratto sofferto, contorto, arreso alla beatitudine, all’amore immotivato, all’Arte con la maiuscola. Non mi convincono le proposte di beatificazione dei curatori. Ma la dedizione di Schiele all’arte ha un che di sacro, se è vero che uno dei significati del sacro è completo assorbimento al di fuori della sfera dell’utile. Negli autoritratti, dice la mia amica, è come se Schiele dipingesse il suo corpo dall’interno. Condivido: tensioni, strappi e stiramenti, la porta girevole immateriale che unisce corpo e mente, il sé come strana misteriosa entità minacciata dalla modernità. A differenza di Dalì e decine di artisti dopo di lui, l’interesse alla propria figura non è guidato dal desiderio narcisista di fama ma da un’incertezza tangibile e da un terrore fin troppo reale della propria immaterialità. Il corpo riflesso su due specchi, l’effimeralità sottolineata da stiramenti acrobatici. I visitatori scattano una foto dopo l’altra e il corpo di Schiele si moltiplica in centinaia di specchi virtuali, una disseminazione che conferma la dissoluzione del sè istigata dall’artista, una dissoluzione che non gli impedisce di indossare (nel dipinto Redenzione del 1913) un mantello verdastro grigio rossiccio per far fronte al nuovo giorno, ricomponendo un’identità per l’avventura dell’esistenza.
All’uscita venditori esausti di manufatti di Schiele sotto il soffitto luminoso. Fra i souvenir della mostra diversi libri con ritratti di Schiele in copertina. Noto una copia di Doppio Sogno, il romanzo di Arthur Schnitzler che ispirò il film meno convincente di Kubrick Eyes Wide Shut. E anche qualcos’altro. Una copia di Ecce Homo di Nietzsche e in copertina uno degli autoritratti inquetanti di Schiele. Mi sento placato, felice.
Grazie Daniella, Luisa
Articolo superlativo. Complimenti!
È vero, un articolo davvero interessante , frutto di conoscenze profonda della materia