Fuori da tutto. Sulla figura anticonformista di Goffredo Parise


di Edoardo Poli

La campagna, vista dal treno, era una imponente macchia verde e gialla, che a Goffredo Parise ricordava alcuni vecchi quadri visti tanti anni prima a Parigi, in una viuzza che aveva l’odore stagnante della povertà e della malattia.
La carrozza su cui viaggiava era composta da una moltitudine di persone, le più diverse possibili, esternamente, ma che per lui non erano altro che una somma di solitudini, di mancanze e di affetti negati.
Si era occupato anche lui di emozioni, di sentimenti, circa dieci anni prima, e come sempre, come accadeva ogni volta, il suo libro aveva fatto scalpore.
Era stato accusato di essere politicamente non impegnato, di essersi disimpegnato, di non potersi permettere, in un momento così delicato della Storia, di usare la porta laterale e cercare una via di fuga. Così meschina, come i sentimenti, poi.
Parise sorrise. Il pensiero di quegli anni lo divertiva. Eppure, subito qualcosa in lui scattò, come per reazione, al ricordo di quello che aveva vissuto. Aveva scritto a un amico che Roma proprio non gli andava più, la sentiva stretta e soffocante, forse per via della sua irrequietezza.
Quanto avrebbe preferito, scriveva all’epoca, una casa dove poter respirare l’affetto di una donna e di una figlia, ascoltare il rumore della pioggia e solo un ombrello con cui ripararsi. Lasciare che il tempo, atmosferico e biologico, divenisse memoria, ricordo.
Ora, il tempo era tutto ciò che non aveva. E tutto lo spazio, la terra che aveva calpestato, non servivano certamente a dargli un’ora o un respiro in più. I dolori erano sempre più fitti, ma non voleva arrendersi a quella natura infame e infelice, che tanto lo aveva entusiasmato e a cui si era sempre votato.
La legge del più forte. La legge dell’inesorabilità. Non lo avevano affascinato? Quando era stato che Gadda lo aveva introdotto alla lettura di Darwin? Era difficile dirlo.
Si passò il fazzoletto bianco, con le iniziali ricamate, sulle labbra umide. Nel frattempo, un odore lo colpì violentemente: una sigaretta era stata accesa e qualcuno, più avanti forse, stava gustandosi il piacere del fumo. Con un gesto istintivo, si portò la mano al taschino, dove teneva sempre il pacchetto, pronto per ogni evenienza. Rimase deluso, sentendo che oltre al tessuto della sua giacca buona, non v’era nient’altro.
Accanto a sé, Omara dormiva piano, il respiro lento e regolare, come quello di un bambino. La osservò per un lungo tratto, come un padre guarda la figlia, così lui provava quel tenero amore, quell’interesse, che lei gli aveva destato fin dal primo casuale incontro, nel negozio del padre.
Non sapeva dire cosa l’attraesse di lei, se la sua giovinezza, l’energia o l’intelligenza. Aveva smesso di farsi tante domande, anche perché non portavano a nessuna risposta. Semplice metafisica.
Ma mentiva. Lo sapeva. Non aveva smesso di pensare, di chiedersi da cosa prendesse origine ogni cosa, come facesse la vita a germogliare sempre, anche adesso in odora di morte, con la gaiezza dei pochi anni che Omaira aveva.
Intanto, il treno passava veloce di stazione in stazione, ognuna uguale all’altra, come gli anni che si succedevano, come gli amici scomparsi, pianti, amati. E la memoria sempre di più un cimitero di anime perse: Commisso, Montale, Gadda. Tutti via.
Mentre cercava di rammentare, a uno a uno, i volti dei suoi amici scomparsi, il sonno lo vinse e si addormentò, cullato dal dondolio ipnotico del treno.
Si risvegliò poco dopo. Qualcuno si era avvicinato convinto di aver già visto da qualche parte quell’uomo, che non doveva avere più di sessant’anni, dal volto austero, sicuramente dal carattere burbero.
Non si era mai preoccupato di come lo avrebbero potuto dipingere. Eppure in tanti ci avevano provato, chi più chi meno, anche qualche pittore famoso, che lo aveva immortalato in presenza di una moltitudine di libretti rossi, con il volto scuro e una posa seria, da intellettuale.
No, non poteva essere un intellettuale lui. Amava troppo la vita e i vaghi borghesi per essere un intellettuale. Da novembre a marzo lo sci, dove se la cavava egregiamente; in autunno andava a caccia; l’estate la passava a Capri; quando c’era il tempo per pensare o per scrivere? Amava troppo il lusso per essere un intellettuale.
Anche scrivere gli riusciva difficile ultimamente e senza Omaira non sapeva come avrebbe fatto. La poesia se n’era andata. Era stato un sodalizio precoce il loro, che aveva dato i suoi frutti, una parte non misera di fama che aveva contribuito ad alimentare un certo gusto aristocratico, la solitudine.
Cos’era rimasto di tutto ciò? Era egli stesso il quadro che col tempo, con le perversioni e la volontà di vivere, aveva contribuito a deturpare? Era possibile per lui, per uno scrittore, dismettere le parole, come si fa un vestito?
Tirò fuori un libro, sempre lo stesso autore, che leggeva e rileggeva, fino ad assumerne l’inchiostro nelle vene, per ricercare delle tracce di quella vitalità che Tolstoj aveva impresso nelle pagine. Voleva ricercarne il minimo particolare: la costruzione della frase, un aggettivo o una pausa. Si sentiva uno scienziato che rivedeva per la milionesima volta sempre lo stesso campione, per scrutarne a fondo il più impercettibile particolare.
Deposto il libro, anzi interrogato da esso, guardò di nuovo fuori e si chiese come fosse possibile ritrarre la realtà, ciò che accade, senza tradirla, senza perderne nessun elemento, anche il più minuscolo, come le ali di una zanzara o le feci di un baco.
Si chiese se lui, alla fine, ce l’avesse fatta a ritrarla nel modo più vivo. Il pensiero andò a uno dei cassetti, nella sua casa di Salgareda, dove teneva un dattiloscritto, che aveva buttato giù di getto. Forse quello era il luogo doveva aveva provato a scrivere della propria vita – anche perché non era mai riuscito a tenere un vero e proprio diario, un difetto di pigrizia – nel modo più libero e oscuro che gli era stato possibile. Qualcuno avrebbe potuto trovare delle somiglianze innegabili tra il protagonista e sé, ma per carattere non avrebbe mai acconsentito a una qualsiasi indagine psicanalitica. Tuttavia, la scrittura, proprio lì, si trovava il solo e unico rimedio alla sua malattia, non quella dei reni, ma l’implacabile malinconia che lo pervadeva sempre più spesso e che, anzi, non lo aveva mai lasciato andare. Anche nei momenti più lieti, la solitudine lo aveva divorato come un lupo con l’ignaro agnello.
Che avesse viaggiato per sfuggirsi? La scrittura e il viaggio. Non erano state proprio quelle le sue due maggiori armi contro la vita e per la vita? Non aveva ridotto la sua esistenza a un viaggio continuo, all’impossibilità di tacere? Non chiamava Omaira, anche nelle ore più assurde, per dettarle qualche appunto o qualche poesia?
Lei, intanto, si mosse nel sonno e con un gesto istintivo gli prese la mano. Una lacrima scese dal volto di Goffredo Parise e lui la lasciò cadere sul pantalone chiaro, paralizzato dal pensiero della fine.
Strinse la mano di Omaira, per rassicurare sé stesso che tutta la realtà era in quel gesto, collassata in qualche miliardo di cellule, che formavano qualcosa che il mondo aveva nominato Goffredo e Omaira.
“Goffredo e Omaira” pensò Parise. E nel vano tentativo di creare delle parole con quelle poche lettere, si addormentò di nuovo, soddisfatto dall’immagine del fuoco e della tavola imbandita che avrebbero trovato al ritorno da quell’ennesimo viaggio, uno dei molti, chissà ancora quanti.

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