Leggere Ingeborg Bachmann per liberarsi dal puritanesimo della cultura dominante


Vivere fino alla morte è vivere abbastanza
Lao Tzu/Ursula K. Le Guin

di Manu Bazzano

L’infanzia di Ingeborg Bachmann (1926-1973) si fermò all’età di dodici anni, quando i nazisti invasero Klagenfurt, in Carinzia, vicino al confine sloveno, nell’aprile del 1938. Da quel giorno fino alla fine della guerra Ingeborg passò le sue giornate a scavare trincee e ad assorbire un mix inebriante di letture: Thomas Mann, Karl Marx, Rilke. Nella prima stanza della sua poesia Tempesta di Rose si legge:

Ovunque ci volgiamo nella tempesta di rose
la notte è rischiarata dalle spine e il rombo
del fogliame, così quieto un tempo fra i cespugli
ci segue ora passo dopo passo.

Poeta, traduttrice, autrice di commedie radiofoniche, saggi letterari, Bachmann scrisse racconti e libretti per Hans Werner Henze (che a sua volta musicò alcune sue poesie).
A vent’anni, a guerra finita e con le autorità austriache impegnate ad insabbiare l’euforica complicità con Hitler, questa donna tranquilla e distaccata dallo sguardo dolce e le labbra vermiglie andò a studiare filosofia all’università di Vienna con un solo desiderio: polverizzare la pseudo-fenomenologia di un professore alla moda, Martin Heidegger. A differenza di Hannah Arendt, che affatturata dal gergo sibillino del barboso cattedratico licenziò momentaneamente l’acume critico, Bachmann non rimase affatto colpita. A differenza di Arendt, che capì la banalità del male ma sorvolò sulla maligna banalità di Heidegger, nella sua tesi di laurea Bachmann espresse sgomento per il fallimento della recondita filosofia Heideggeriana nel trasmettere un senso vero della vita. Chiunque rimanga affascinato dagli elaborati sofismi di Heidegger farebbe bene a trovarsi un antidoto. Il mio è Walter Benjamin, teologo eterodosso e rivoluzionario invece che dissimulato e reazionario. Per Bachmann l’antidoto fu Wittgenstein, potente alleato nella sua ricerca di una lingua vivente, non più regno sovrano del significato ma pratica quotidiana diligente e collettiva.
Nel saggio radiofonico dei primi anni Cinquanta sulle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein, Bachmann afferma l’importanza di parlare e scrivere con precisione, lontano da pronunciamenti sibillini; di percorrere il terreno accidentato di incertezze, dubbi e interpretazioni errate e far sì che il “soggetto parlante” diventi vivo attraverso una lingua che respira.

Difficile trovare una critica più aspra del parassitismo e delle manipolazioni degli uomini nei confronti delle donne. Nel romanzo Malina, adattato per lo schermo da Werner Schroeter nel 1991 con la sceneggiatura di Elfriede Jelinek e Isabelle Huppert nel ruolo di protagonista, Bachmann chiama inequivocabilmente “omicidio” la manipolazione delle donne da parte degli uomini. È stato un omicidio: la frase finale del romanzo dopo la scomparsa di Malina, una scomparsa stranamente simile a quella dell’autrice. Alcuni dei personaggi maschili sono reali, ma uno di essi è l’alter ego della narratrice – un’ambivalenza che rende il suo femminismo meno letterale del previsto e più attento forse alle incertezze e ambiguità evidenti nella psicoanalisi.
Bachmann ci ricorda che l’iniquità ha diversi strati. La criminalità è espressione palese di un desiderio di distruzione che è latente nelle nostre interazioni civili. Qui non scorre sangue, ma alla strage viene concesso un posto all’interno della morale e dei costumi di una società i cui nervi fragili tremano. Sarebbe tuttavia un errore pensare alla denuncia militante di Bachmann della violenza degli uomini sulle donne come precorritrice del femminismo conservatore che oggi si allea alla destra evangelica e populista che odia il sesso e dimentica il sessismo. La sua vita ricca e turbolenta è testimone di un’intelligenza feroce e lussureggiante in contrasto con il puritanesimo acclamato dalla cultura dominante contemporanea.
Bachmann ebbe diversi amanti, uomini che amò profondamente e con i quali ebbe relazioni complesse, fra cui il drammaturgo Max Frisch e il poeta rumeno Paul Celan, sopravvissuto all’olocausto e la cui poesia Corona, scritta per Bachmann, ho nel tempo che fu sfacciatamente adattato per una canzone. Ci guardiamo, ci diciamo cose oscure … dormiamo come vino nelle conchiglie, come il mare nel raggio sanguinante della luna … Abbracciati alla finestra, dalla strada ci guardano: è tempo che si sappia! È tempo che la pietra fiorisca … È tempo.
In risposta alla poesia di Celan, Bachmann scrisse in una lettera del 24 giugno 1949: “Continuo a dire a me stessa che Corona è la più bella delle tue poesie, perfetta anticipazione di un momento in cui ogni cosa tramuta in marmo e tale rimane per sempre”. Qualche anno dopo in una sua raccolta di versi Die gestundete Zeit (tempo a prestito) si trova una poesia con il titolo Ci diciamo cose oscure, nella quale descrive se stessa come Orfeo e Celan come Euridice:

Non ti appartengo
versiamo lacrime entrambi adesso
Ma come Orfeo conosco la vita dal lato della morte
e il blu profondo dei tuoi occhi chiusi per sempre.

La loro corrispondenza, pubblicata nel 2012, traccia le gioie e sconvolgimenti di una relazione che durò molti anni e sopravvisse diverse separazioni.
Nei suoi scritti la morte rimane estranea, insondabile, invincibile invece di un evento che può essere comodamente assimilato dal soggetto umano. La morte rimane sorprendente, specie quando le circonstanze sono precipitose. Bachmann morì a 47 anni, dandosi accidentalmente fuoco dopo essersi addormentata con la sigaretta accesa.

Un pensiero riguardo “Leggere Ingeborg Bachmann per liberarsi dal puritanesimo della cultura dominante

  1. Un articolo potente e vitalissimo, di acribia assoluta, che ha destato in me un entusiastico interesse nei confronti di Ingeborg Bachmann. Folgoranti, tra gli altri, i passaggi riguardanti Heidegger e Arendt.

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