Cookie Mueller alla ricerca del senso più autentico della scrittura: la testimonianza


di Alex Marcolla

Da dove fosse arrivato quel nomignolo, lei non lo aveva mai capito e nemmeno le importava. Si chiamava Dorothy, ma per tutti era Cookie da che aveva memoria. Come Cookie aveva conquistato la fama tra gli appassionati del cinema underground. Come Cookie aveva fatto in modo che la dimenticassero in fretta per ricominciare daccapo, questa volta per seguire quella che fin da bambina era stata la sola vocazione che avesse sentito. Cookie desiderava scrivere e lo desiderava con tutta se stessa. Il sospetto di essersi lasciata vivere allontanandosi così dalla strada che avrebbe voluto intraprendere non le dava tregua, soprattutto da quando aveva cominciato a non sentirsi bene. Sapeva di essere malata e sapeva che quel che l’affliggeva non le avrebbe dato scampo. Non le importava granché di abbandonare questa vita. Tante altre erano in attesa di essere vissute, tante altre le avrebbero riservato sorprese ancor più grandi di quella che si apprestava a terminare. Priva dei fardelli del corpo avrebbe viaggiato leggera come aveva cercato di essere sempre, di questo Cookie ne era più che convinta. Alle prese con il racconto di quel che era stata la sua vita fino ad allora, Cookie non riusciva però a evitare di porsi infinite domande. Le stesse che aveva sempre evitato, preferendo buttarsi nel turbine frenetico delle opportunità che le si erano presentate a ogni angolo di strada. Cookie si chiedeva in continuazione se sarebbe riuscita a portare a termine quel libro. Le sfuggiva qualcosa, forse soltanto una sensazione di incertezza costante provata nell’infanzia o forse un incontro decisivo che per caso o per capriccio aveva mancato. Con più probabilità, si trattava del punto di partenza. Da dove era cominciato il suo cammino? Quale era stato l’autentico inizio di quell’inesausto bisogno di raccontare che percepiva sottopelle e che si era ostinato a restarle dentro malgrado le continue deviazioni a cui lei lo aveva sottoposto? Se Cookie fosse riuscita a scoprirlo, quel sentore di aver buttato del tempo prezioso forse sarebbe svanito e il racconto autobiografico di ciò che era stata avrebbe avuto una fine in linea con il principio. Un cerchio si sarebbe chiuso con naturalezza, un altro sarebbe cominciato con una curiosità degna di un esploratore. Ogni tassello sarebbe andato al suo posto. Affinché ciò accadesse, Cookie avrebbe dovuto ricordare. La memoria era la chiave di accesso al mistero che ormai le aveva tolto il sonno.

Ripensando ai suoi primi anni a Baltimora, Cookie non riusciva a fare a meno di credere che aveva vissuto come la protagonista di una cupa favola gotica. Prima di tutto c’era quella casa alla periferia della città. Quella in cui era cresciuta, quella che apparteneva ai suoi genitori. Alla sera dalla finestra della sua stanza Cookie fissava come ipnotizzata un fitto bosco nero. Ogni volta che il vento forte li scuoteva, quegli alberi si muovevano come ossessi in preda ai deliri e quell’immagine ripetuta nella sua mente di bambina le permetteva di non sentire le grida provenienti dall’ospedale psichiatrico situato lì a due passi o i rumori di ferraglia dei treni che rapidi passavano sui binari davanti a casa sua. Cookie si chiedeva spesso se era stata l’aura sinistra di quel posto a spingere il padre a continui viaggi in giro per il paese trascinando con sé i suoi cari. Quasi mai erano programmati, quegli spostamenti. Finita la settimana, la famiglia partiva all’improvviso con grande gioia di Cookie e i paesaggi dinanzi ai suoi occhi cambiavano in continuazione. Da lì si era sviluppato l’inesausto bisogno di fuga di Cookie, quello che l’avrebbe portata a girare il mondo senza una meta precisa. Quando suo fratello Michael morì poco più che adolescente, la frenesia nomade del padre di Cookie si interruppe subito. Il genitore perse di colpo il gusto per il viaggio, quasi fosse stato quello a uccidere Michael e non la tipica bravata da ragazzi finita male. Cookie smise di guardare fuori dalla finestra, il giardino di casa le ricordava Michael. Lui era morto cadendo da un albero sul quale si era arrampicato. Quella morte repentina però non era all’origine del suo bisogno di scrivere. Certo quella fine l’avrebbe raccontata, lo sapeva. Il suo bisogno di narrare tuttavia aveva cominciato a divorarla molto tempo prima che Michael morisse, anche di questo era sicura. Le mancavano ancora un paio di anni prima del diploma. Trovò un lavoretto in un grande magazzino per mettere da parte i soldi necessari a lasciare Baltimora. Lo stile di vita hippie si era diffuso in città come ovunque nel paese, Cookie ne era affascinata. Agognava una libertà che le permettesse di abbandonare ogni limitazione. I confini di qualunque genere non le appartenevano, gli steccati imposti dalla società le facevano mancare l’aria. La sua stessa pelle e i bisogni del suo corpo, li avvertiva come una gabbia dalla quale doveva tentare di evadere a ogni costo. Terminati gli studi, si congedò dalla famiglia e cominciò a viaggiare. Dapprima, come un tempo aveva fatto al seguito di suo padre. Poi, con sempre maggiore libertà. Priva di qualunque comodità, solo qualche libro e un taccuino sul quale annotare tutto quel che vedeva e le persone che incontrava. Tutta quanta la bellezza che la circondava e della quale non era mai sazia. Durante uno dei rari ritorni a Baltimora, Cookie conobbe John e la sua vita prese un corso inaspettato. Era il 1969.

Anche John era di Baltimora. A differenza di Cookie però, John non aveva ancora lasciato la città. Di qualche anno più grande di lei, John possedeva uno spirito irriverente che aveva riversato come un fiume in piena nella propria passione per il cinema. Già da qualche anno John aveva cominciato a girare film, spinto dal bisogno di reinventare alla radice la vecchia Hollywood per creare un suo personale universo popolato da tutti quelli che la società americana teneva ai margini. I film di John costavano poco, le sue idee erano esplosive e la sua satira del tradizionale stile di vita americano possedeva il sapore di una colata acida capace di disintegrare gli organi vitali dello spettatore. Si conobbero a una delle sgangherate prime visioni di un film di John. Davanti a quelle immagini, Cookie non poté fare a meno di ridere a crepapelle. Ammirava quel ragazzo e il suo lavoro. Le risate di Cookie erano per John la miglior espressione critica possibile. Divennero subito amici inseparabili. John le propose una parte nel suo film successivo. A quel primo ne seguirono molti altri e il successo che arrise al cinema di John ormai assurto a regista di culto, conferì a Cookie lo status di icona di un cinema indipendente caratterizzato da una sfrenata libertà iconoclasta. Cookie però non sembrava felice. Se da un lato le pareva assurdo che una manciata di ruoli di secondo piano fatti per puro divertimento le avessero conferito una simile popolarità, dall’altro era ben consapevole che il cinema di John le aveva permesso di conoscere ancora più a fondo se stessa e il tempo in cui viveva. Cookie era grata a John, ma non era l’attrice quello che desiderava fare. Salutò John, sarebbero rimasti amici negli anni a venire. Ora o mai più, la scrittura era un pensiero fisso, doveva trasformarla in una pratica quotidiana. Così fece. Si trasferì a New York, l’ultima tappa della sua breve corsa.

Era trascorso quasi un decennio dal suo addio alle scene. Aveva pubblicato libri, si era fatta un nome come scrittrice. Cookie però non era soddisfatta di ciò che aveva scritto fin lì. Il suo editore aspettava un nuovo libro, quello in cui Cookie avrebbe raccontato la sua vita e le ragioni stesse del suo scrivere. Quel che era stata le era chiaro, mancavano le fondamenta, le sole capaci di illuminare il senso all’origine dei fatti. Ora che la sua vita era agli sgoccioli, se non avesse trovato quel senso sarebbe stata irrimediabilmente perduta. Dopo l’ennesima notte insonne trascorsa a rimestare tra le sue memorie passate, Cookie si decise a lasciare il suo appartamento per fare una camminata e prendere un caffè in uno dei locali lì vicino. I passi furono più di due e senza rendersene conto si ritrovò lontana dal suo quartiere. Trovò un bar, ordinò un caffè e si sedette su uno sgabello davanti alla vetrina che dava sul marciapiede. Mentre spossata attendeva che il cameriere le portasse la bevanda che aveva richiesto, Cookie alzò gli occhi e vide dall’altro lato della strada un immenso e austero edificio. Era una biblioteca. Il colpo fu brusco, un ricordo che aveva rimosso le balzò alla mente. Come se l’avessero schiaffeggiata di sorpresa mentre dormiva, Cookie si destò all’istante e ricordò il primo feroce impulso che l’aveva condotta a portare a termine una storia. Aveva soltanto undici anni quando frequentando una biblioteca poco distante da casa, Cookie era incappata in un libro di storia locale che riportava un fatto di cronaca capace di turbarla. Sul finire dell’800 un’alluvione aveva spazzato via metà della popolazione di una cittadina poco lontana da Baltimora. Solo una pagina era dedicata a quelle morti, poche righe appena riservate a esseri umani di cui sembrava non importare più nulla a nessuno. Per Cookie, la dimenticanza che aveva investito quel dramma era intollerabile. Decise che avrebbe consacrato il suo primo libro al ricordo di quelle persone. Trascorse ogni momento libero a ricostruire ciò che era accaduto a quei poveretti che la furia della natura aveva spazzato via. Il risultato fu un libro di più di trecento pagine che Cookie provvide a rilegare con mezzi di fortuna. Tornando alla biblioteca dove aveva scoperto la storia dell’alluvione, lo portò con sé. Senza che nessuno se ne accorgesse, Cookie gli trovò un posto sullo scaffale di storia locale accanto al volume che recava traccia della tragedia. Un libro intero per rievocare le vittime di quel disastro, lo aveva scritto Cookie. Continuò a frequentare quella biblioteca per tenere d’occhio il suo libro. Era sempre nel posto in cui lei lo aveva sistemato. Poi un giorno, Cookie si accorse che era sparito. Chiunque lo avesse preso, non lo avrebbe mai più restituito. E avrebbe aiutato a perpetrare la memoria di quelle vite spezzate. Ora Cookie piangeva. Fuori aveva cominciato a piovere e lei non se n’era accorta. Questo era il senso dello scrivere che stava cercando. Era certa che si fosse palesato da qualche parte nella sua vita, solo non lo rammentava più. Eccolo, ora: la testimonianza era il senso più autentico della scrittura. Testimoniare le vite altrui, testimoniare la propria vita. Per preservarne la memoria. Finì il suo caffè e si affrettò a tornare a casa. Aveva un libro da portare a termine.

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