L’eredità degli altri


di Valentina Falsetta

Le famiglie si erano slacciate nel corso degli anni come dovessero seguire una pagina già scritta. Non c’era stata indulgenza protratta per lunghissimo tempo che avesse potuto evitare il crollo, il disgregamento, la vergogna. I lacci, come quelli che danno il titolo al romanzo di Domenico Starnone, per noi erano stati ipocrisia e menzogna: mentire a sé stessi su un bene presunto per non ammettere gli istinti peggiori l’uno dell’altro. Forse aveva iniziato a sfaldarsi tutto con la morte di uno fra di loro, più probabilmente era solo venuto meno l’anello buono. Dall’altra parte, s’erano avvinghiati alla miseria e tutto avevano ammantato di quella: i lati scuri da precari eran diventati fissi, i sentimenti buoni non si trovavano più neanche scavando nei ricordi d’infanzia. I legami erano belli che andati per sempre, lo sapeva, non se ne crucciava.
Quelli che erano rimasti le avevano chiesto cosa volesse per Natale.
Mai aveva saputo cosa chiedere. 
Dammi questo, a Natale, Babbo. Un libro precoce e sbagliato. Il primo anno da cosciente aveva scelto così. Neppure al compleanno, il giorno della candelora, era capace di chiedere. Quello era il mese, chissà per quale filo smosso, di precarietà e allegria rada. 
La mamma andava in letargo come una tartaruga, il papà si cuciva i pensieri, il fidanzato si preparava a San Valentino. Cosa vuoi? Chiedevano, e non rispondeva al tempo che intransigente cadeva sui muri. Voleva forse un orologio come quello della compagna di banco? Degli orecchini come quelli della migliore amica al liceo? Una macchina da scrivere quando s’era scoperta con un modo di vivere? No, voleva la previsione di un tempo poco sospettato, diverso da quello di tutti loro, non incartato, dinamico sicché tutto il passato ricordato le sembrava statico, imbellettato di desideri che le avevano fatto sembrare lontani, impossibili. A terra con loro non ci voleva rimanere. Voleva un laccio a futura memoria che le dimostrasse possibile il perdurare di una situazione gioiosa, un legame puro. Un dono scelto, da scartare insieme, le ricorda i Natali brutti, grigi, la nonna immobile come la montagna dietro di sé, legami unti. Erano effimeri e lontani da lei.
Ora sente la casa respirare, vivere ancora, come quando per addormentarsi la immaginava rifugio e credeva che le strutture avessero gambe e camminassero per le città, si incontrassero. Le sembra di ascoltare l’impercettibile suono di vasi, maglioni, tessuti profumati di ammorbidente, documenti che si accatastano e muoiono inutilizzati. Da anni non accumula più i vestiti. Sceglie un capo basico, si regala un paio di guanti vezzosi se non riesce a resistere. Sua sorella si occupa di comprare anche per lei: riempie con gioia e gusto ogni angolo. Con violenza e con energia inesauribili vorrebbe svuotare gli armadi, i cesti, i cassetti di ogni mobile. Vorrebbe ogni cosa rinnovata: il percorso dal letto a una piazza al portagioie egiziano in avorio e legno, sul ripiano dietro le felpe, cambiato. 
I gioielli dentro lo scrigno sono organi di altri: il ferma fede d’argento e diamanti, la fascia in oro giallo con diamanti colorati, il solitario in Swarovski, la collana con la perla incastonata di punti luce. Non li ha chiesti. Sua mamma, la mamma del fidanzato, lui, tutti hanno capito ad un certo punto che vorrebbe stare in disparte durante le feste. Guarda gli altri scartare i pacchi con i suoi in mano e le sembrano corpi estranei: strano che sia proprio per me. Un pensiero per me? si chiede, e non ricorda la voglia di bambina. Tutto si rende superfluo. 
Cosa mi serve? Di cosa ho bisogno? 
Le occasioni per mostrare di essere una buona famiglia erano state insoddisfacenti e tristi. Più che amata s’era sentita non necessaria, giudicata.
Erano stati vasi comunicanti intorno a un tavolo ruvido, vecchio, con altri tavoli più piccoli per i bambini aggiunti fino alla porta d’entrata. A lei toccava il posto scomodo difronte l’enorme ritratto dello zio. Mangiava il pollo sotto uno sguardo blu di mare e le spalle al termosifone: una fila a destra, una a sinistra, non c’era via d’uscita e nemmeno modo di farsi ascoltare. La cugina coetanea aveva scartato il grande scatolone e tutto a un tratto s’era zittita quando aveva sentito parlare dello zio, s’era avvicinata a lei, le aveva detto calma, serena, che ormai lui era solo ossa.
Ora voleva un rito nuovo. No, non voleva neppure un rito: voleva la libertà di una scelta o di una risposta e tutto il peso che comportava. Voleva tante famiglie o nessuna, proteggersi, prima di ogni dovere di sangue. Voleva un amore e appartenere ancora a quel sé profondo, fluttuante.  Ancora impreciso: voleva divorare ogni cosa dal profondo di quel futuro inaspettato che l’attendeva.
La notte di Natale, poi, era arrivata e aveva fatto un sogno che la riportava al cimitero visto a cinque anni. Grandi ortensie, aveva visto – erano fiorite doppie, triple, quadruple nel giardino; erano sbocciate così rosa e intense in capo a foglie larghe e verdi, così vivide da fare male agli occhi. Poi era diventata un occhio lei stessa: poggiava lo sguardo su un muro bianco. Sul muro bianco, ecco, come della materia a macchie. Brandelli di carne o di qualcosa di corporeo, non riusciva a capire. Lì sorgevano i vermi. Bianchi, piccoli, ciechi e stupidi come ogni cosa abietta sulla terra insozzata dall’uomo. Tutto il possibile orrifico dell’animo umano e la crudeltà della natura concentrata in quella doppia immagine di fulgore e marcio.
Si era svegliata e l’aveva dimenticato.
Dopo, quando la mattina era già passata ed era calata quell’ora malinconica che non è mattino e neppure pomeriggio, s’era ricordata l’immagine e aveva capito che il tempo di mezzo correva via sempre più rapido o così le pareva perché troppo presto aveva saputo della fine della vita e che la cugina aveva ragione, quella sera di Natale vent’anni prima, eravamo ossa e vermi, ma avrebbe voluto stare al sicuro, non pensare allo zio a quel modo, ancora giocare e ignorare.
Però ora poteva scrivere. Nel mondo milioni di persone pensavano alla morte, avevano solo bisogno di leggere parole fra le tante che lo confermassero: che siamo tutti nella stessa miseria fallibile di pelle e sangue e legami sbagliati. Poteva, forse, per dimenticarsene, sedersi alla finestra. Salutare ogni giorno alla grande?  No, non era mai stata portata per l’espansione clamorosa. Felicità serena. Godere il sole. Sminuzzare gli ingredienti del battuto con la musica di sottofondo. Camminare a grandi passi. Il giardino al tramonto. I genitori ancora forti. Il piacere fisico di scrivere. La bellezza estetica. Leggere Marguerite Duras che, pure lei, scriveva di tutto questo e riportava al mondo rassicurando: “Avevo dimenticato la morte”. A quel punto si ripeteva che fosse possibile dimenticare, sì, e preparava la prossima valigia.

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