di Manu Bazzano
Nel buio prima dell’alba il tassista scorbutico accelera, alza il volume e mi devo sorbire il primo ministro che dopo trattative notturne arringa dal finestrino aperto i piccioni assiepati nella rotatoria di Marble Arch. I parlamentari si riposeranno un po’, dice il cronista, e dopo l’ottima colazione pagata dai contribuenti chineranno l’aggrondata fronte sull’articolo 50.
Poi d’improvviso: È buio il mattino che passa senza la luce dei tuoi occhi, i versi di Pavese che avevo scelto a diciott’anni per la lapide di mia madre.
Ore dopo in una marea di viaggiatori all’aeroporto Ferenc Liszt con un sole sbiadito dietro nuvole separatiste. Rannicchiato per ore nel buggerìo d’una folla ansiosa mi strascino in moviola di fronte all’avviso che spiega l’emendamento all’accordo di Schengen del 7 aprile 2017: “Dobbiamo proteggere i nostri confini”. Sissignore. E osannare in contralto le canaglie in cima al palo grasso della cuccagna.
Traversate alfin le corazzate sponde sotto il piglio fascistoide di sbarbatelli impettiti m’involo su un furgone vacillante, la politica locale sciorinata dal traghettatore Zoltan in rotta per l’airbnb. A Putin piace l’Ungheria, m’informa, ancor di più da quando Orban è al potere.
Pest dalle colline di Buda al crepuscolo. Poi di notte luci remote all’orizzonte. Ma non ci sono stelle nel cielo notturno della città. Kant descrisse due misteri intrecciati e ugualmente indecifrabili: la legge morale nell’interiorità e il cielo stellato negli spazi siderali. Un pensiero da diciottesimo secolo; nessun residente d’una metropoli odierna saprebbe concepirlo. La metafora astrale kantiana e la sua idealistica (e militaresca) legge morale s’abissò con l’affiorare delle metropoli. Non perché la città è abitata da gattimammoni e stranieri che insozzano i valori morali, ma perché il cambiamento è inesorabile, mettetevi l’animo in pace. La metropoli è per di più un tableau vivant che sotto l’asfalto trasmette una polifonia d’erba e sabbia, e per strade e vicoli la psiche iridata d’un dio assente.
Non mancano i benefici: questa entità che m’ostino a chiamare “io” sorseggia adesso per la prima volta la palinka offerta da Dani e Simon, colleghi ungheresi organizzatori del mio seminario di tre giorni sull’ospitalità incondizionata che inizierà domani. Palinka è un cognac versatile di frutta, insigne nella mia mitologia privata, parola stregata udita per la prima volta nell’omaggio di Béla Tarr a Nietzsche, Il cavallo di Torino. In una scena del film un contadino che vive in condizioni di estrema povertà con la figlia adolescente offre la palinka a un viandante. Mentre il bicchiere viene più volte riempito, il viandante ripaga la cortesia con un sermone zarathustriano: “tutto è stato comprato e venduto, svilito, compresi i nostri sogni. E noi come reagiamo? Sopportiamo tutto. Il giorno s’ottenebra e ogni cosa viene comprata, venduta, e ricomprata”. All’uscita del locale Dani mi fa notare che indosso il mio berretto al rovescio. M’affretto a precisare che non è per sciccheria ma sbadataggine.
Al seminario ogni mia frase viene tradotta in ungherese. Nell’attesa dimentico la frase successiva e la stessa cosa succede per le domande e i commenti dei partecipanti. Strano dapprima, ma la lentezza forzata a poco a poco elude la smania usuale del salvaguardare nel moto accelerato una parvenza di solida identità da Humpty Dumpty. La lentezza apre uno spazio. Un momento dopo l’altro, veniamo dal nulla: questa è la vera gioia della vita.
Sono di passaggio, e chissà se e quando rivedrò questi volti e sentirò queste voci, già così familiari dopo un’ora insieme. La città stessa è un’amica incantevole. E più incantevole fra tutte è la gioia che provo al mattino presto uscendo nella strada ignota.
Pest dalle colline di Buda nel blu profondo di mezzogiorno. Stregato dalla vista del Danubio che scorre maestoso nel cuore dell’Europa. Le grida e i sussurri della storia spigolate dal fiume in un viaggio di duemila chilometri dal delta nel Mar Nero e nell’ampio serpeggiare: Ucraina, Moldavia, Bulgaria, Romania, Serbia, Croazia, Ungheria, Slovacchia, Austria, e Germania. Come aumentare la bellezza di questo fiume luminoso, si domandò Hölderlin. Mentre il fiume giovane fuggiva nella pianura, allegro di tristezza, come un cuore che si getta amando nella marea del tempo. Guardando il Danubio in un’ora avventurata avverto il ronzìo della storia. In momenti rari m’approssimo al presente; m’accorgo che ciò che chiamo “adesso” scorre. M’accorgo che l‘adesso non può essere situato nel tempo. In un baleno la costellazione di ciò che fu s’unisce al presente. Nell’attimo, un evento del passato risuona e per la prima volta si rivela. Walter Benjamin chiamò tale attimo Jetzt der Erkennbarkeit, “l’adesso della conoscibilità”. Tale attimo di riconoscimento non è metafisico; non riconosce alcuna “forza vitale” separata dal movimento della storia.
Questo momento che passa in un battito di ciglia mi regala il sogno ad occhi aperti di un’Europa senza confini nazionali, un’Europa culla dello scetticismo visionario e dell’arte; di scrittori esuli da guerre e olocausti o involatisi felici, Auden, Harendt, Beckett, Joyce. il patriottismo è l’ultimo rifugio degli imbecilli.
Sono grato che questa mia infatuazione favoleggiante per l’Europa e il Danubio è corrisposta. Mi commuove la bellezza delle città europee, persino quando è sepolta da un protervo smalto imperiale, perfino quando la tenerezza, il dolore, e l’amore della loro storia tormentata sono brutalizzati da un’architettura maligna e stuprati dalla tirannia e dall’arroganza.
Alla metropoli moderna appartiene la peculiare estasi che Benjamin (nel suo commento alla poesia di Baudelaire A una passante) chiama amore a ultima vista. Nel rumore assordante di una strada parigina, il poeta intravede una donna “in profondo lutto, maestoso dolore” che irradia “dolcezza che incanta e piacere che uccide”. Lo sguardo di lei, un lampo, poi la notte. Bellezza fugace, il cui sguardo m’ha ridato vita d’un tratto, ti rivedrò solamente nell’eternità? Altrove, lontano, troppo tardi, mai forse! Apparizione concreta in un corpo vivente. Non un “archetipo” a meno che gli archetipi piangano lacrime calde e gemano di piacere. Non in contrasto allo scorrere della folla cittadina ma come spuma sull’onda. Non è d’obbligo essere flaneur di professione per apprezzare l’amore a ultima vista. Per esempio quella sensazione strana dolce-amara nel saluto da un taxi la mattina presto dopo una notte insieme. O non sapere apprezzare un amore finché non lo perdiamo. Oppure una storia senza vincoli né rimpianti.
Al viandante ogni strada è straniera, persino le strade della città natale. Mi sono dato un compito: diventare estraneo a me stesso.
Una storia bellissima, folgorante, ricca di incantamenti e d’un sorriso diffuso.