Il maledetto abbandono di Elizabeth Bishop

di Alex Marcolla

Dopo anni lontana dal suo paese, Elizabeth vi fece ritorno consapevole che il tempo dei viaggi per lei si era concluso. Il denaro che suo padre le aveva lasciato era agli sgoccioli, per mantenersi e continuare a scrivere come desiderava avrebbe dovuto trovare un lavoro. Questa prospettiva non la preoccupava. Certo, Elizabeth non era più giovanissima e la vita nomade che aveva condotto le era scivolata tra le dita senza che lei nemmeno se ne accorgesse. Tuttavia, era pur sempre una delle più originali voci poetiche del suo tempo e la sua statura come artista non poteva essere messa in discussione in alcun modo. Della sua opera Elizabeth era fiera. Scrivere poco più di un centinaio di versi in oltre mezzo secolo le era costata una immane fatica. Elizabeth aveva scelto fin dai suoi esordi di creare poco, di tornare più e più volte su ogni singola parola e di verificare con precisione da quale punto dentro di sé sgorgasse il ritmo delle frasi che componeva con assoluta dedizione. Soprattutto, Elizabeth aveva preteso da se stessa una ostinata osservazione delle altrui vite. Solo raccontando l’altro era auspicabile conoscere un poco di questo mondo e con esso un poco del proprio Io più intimo e nascosto. La sua ritrosia al confessarsi tanto cara alla maggior parte dei poeti della sua generazione le aveva procurato la diffidenza del pubblico e la sua opera passava per ostica anche presso gli accademici meno avveduti. Un nome però se l’era fatto e la meraviglia incondizionata che era riuscita a destare in un piccolo gruppo di ostinati lettori sarebbe stata più che sufficiente per occupare la cattedra di un qualsiasi college del New England, la terra in cui era nata e cresciuta, e in cui era tornata a vivere. Elizabeth si sarebbe data da fare presto per trovarla quella cattedra, nel frattempo aveva un nuovo appartamento da sistemare. Un posto da rendere il più possibile adatto alla vita solitaria che vi avrebbe condotto per gli anni che le rimanevano. Una protetta intimità tra le cui pareti avrebbe rimesso mano alle parole già scritte e a quelle ancora da pensare. Una di queste non dava tregua alla mente di Elizabeth da settimane. Le si era insinuata nella testa poco prima della sua partenza dal Brasile. O così lei aveva creduto l’istante stesso in cui se l’era ritrovata sulla punta della lingua e l’aveva sussurrata. Poi, le si era conficcata nelle pieghe che avevano preso le sue riflessioni. Era bastato un singulto improvviso attribuito sul momento alla turbolenza che aveva investito l’aereo che la stava riportando a Boston. Quella parola in realtà le era nata dentro quando ancora era una bambina e fin dal primo istante lei l’aveva cacciata nell’ombra che la abitava. Quella parola aveva lottato con tenacia per riemergere, malgrado il fermo diniego di Elizabeth. Fino a quando lei se l’era scordata e tutto si era ridotto a un brutto sogno dell’infanzia. La morte di Lota aveva risvegliato quella parola che ora le imponeva di fare i conti con ciò che era stata la sua intera esistenza. Una costante sequela di abbandoni che l’aveva lasciata vuota e sola. Abbandono, il maledetto abbandono. Ecco la parola che Elizabeth non osava pronunciare a voce alta.

Tutto sembrava essere cominciato sotto i migliori auspici. Un cittadina del Massachusetts in cui Elizabeth aveva aperto gli occhi una fredda mattina di febbraio. Una comunità operosa che ruotava attorno all’impresa edile di famiglia. Poi Thomas e Gertrude, i suoi genitori. Due giovani che si erano scelti, un futuro carico di promesse. Soltanto pochi mesi dopo la nascita di Elizabeth tutto andò in frantumi, cominciarono gli abbandoni. Quello di Thomas fu il primo, una morte improvvisa che lasciò Elizabeth senza padre a soli otto mesi. Il dolore di Gertrude per quella perdita le fece perdere l’uso della ragione. Incapace di badare a se stessa e alla figlia appena nata, fu ricoverata in un ospedale canadese dal quale non sarebbe più uscita. Quando morì nel 1934, Elizabeth aveva ventitre anni. Prima della fine, madre e figlia si erano viste raramente, la madre ormai assente a se stessa del tutto ignara che la persona davanti ai suoi occhi fosse la figlia. Elizabeth crebbe tra i nonni materni e una sorella della madre, cominciando a maturare dentro di sé quell’inclinazione a spostarsi che avrebbe segnato la sua intera esistenza. Mai attaccarsi a nessun luogo, mai sentirsi a casa da nessuna parte. Nulla può resistere nel tempo, tutto ti può essere portato via in un batter di ciglia. Queste le frasi che fin da ragazza Elizabeth fingeva di non udire e a sibilarle, quella parola impronunciabile. Abbandono, tutto è sempre e soltanto abbandono, e ti ritroverai sola. Per sempre, sola. Gli anni universitari trascorsero sereni. Dapprima Elizabeth aveva manifestato l’intenzione di fare il medico. In seguito, l’incontro con Mary e Marianne, entrambe destinate a occupare un posto di preminenza nella letteratura americana, la convinsero a optare per lo studio della poesia inglese. Niente di più bello per Elizabeth, che fin dalla giovinezza trascorsa tra approdi familiari diversi aveva coltivato una inesausta passione per la lettura, privilegiando i grandi poeti del passato. Conseguita la laurea, la vita adulta di Elizabeth poteva avere inizio. Entrò in possesso dell’eredità del padre, si trasferì a New York, continuò a frequentare le amiche dell’università e accanto a loro si diede alla scrittura a tempo pieno. I suoi esordi coincisero con i primi viaggi. Sete di conoscere il mondo nel quale viveva, certo. Anche fughe, però. Europa, Africa e il lontano Oriente. In compagnia della amiche, talvolta. Da sola, sempre più spesso. Infine il Brasile e un’attrazione irresistibile per la sua lingua, la sua poesia e la sua musica. Quando Elizabeth mise piede a Rio de Janeiro per la prima volta, aveva da poco compiuto quarant’anni. Ormai dimentica del terrore che gli abbandoni le avevano provocato si immerse nella cultura di quel paese. Un nuovo insperato spiraglio di gioia l’attendeva dietro l’angolo. Conobbe Lota e ne venne travolta.

Si chiamava in realtà Maria Carlota, ma per tutti era semplicemente Lota. Aveva fondato uno studio di architettura diventando in poco tempo uno dei nomi più prestigiosi in quel settore. Richiesta, idolatrata, decisa. Elizabeth la conobbe per caso. Fu una passione immediata da parte di entrambe. Andarono a vivere insieme poco dopo il loro primo incontro. Elizabeth lasciò il suo paese convinta che non vi sarebbe più tornata. Il Brasile sembrava offrirle una casa sicura per la prima volta nella vita e quella casa aveva le fondamenta nell’amore che la legava a Lota. I viaggi furono accantonati, le fughe diventarono un ricordo del passato, la sua poesia si arricchì di nuove inesplorate visioni di altrui esistenze. Ai bordi di queste, sempre faceva un timido capolino quella di Elizabeth, ora accarezzata dalla luce che Lota irradiava. Anni felici trascorsero in fretta senza che Elizabeth ci facesse caso e coinvolta dal costante tentativo di tradurre in parole esatte ciò che vedeva, non si accorse che un velo maligno era calato sullo spirito di Lota. Rientrando a casa una sera Elizabeth trovò il cadavere della donna che amava. Lota si era tolta la vita. La parola proibita si fece strada con impeto liberandosi dalle catene con le quali Elizabeth l’aveva imprigionata e arpionandosi al suo volto in preda alle lacrime, gridò il suo nome. Abbandono, un nuovo abbandono. Ultimo e definitivo. Adesso si trovava di nuovo negli Stati Uniti, con i pochi soldi rimasti e il bisogno di trovare al più presto un lavoro. Riconsiderando a ritroso la lunga scia di abbandoni che l’avevano colpita, Elizabeth comprese che a dare forma al suo carattere poetico erano state quelle assenze. Non abbiamo alcun potere sopra queste nostre miserabili esistenze, così doveva essere. Solo la poesia donava l’acume necessario per fare tesoro di questa amara verità.

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