Il lato B di Francesco Guccini


di Edoardo Poli

Un giorno, mentre ero nello studentato che ha ospitato i miei ultimi due anni di università, ho sentito la mia vicina dire al telefono che “I cantanti sono gli attuali poeti”. È una frase che mi è rimasta dentro e alla quale penso spesso. Se questa frase è vera – e su questo è lecito interrogarsi – allora non posso non pensare alla figura di quel poeta che è stato Francesco Guccini. Quando pensiamo a questo imponente montanaro tosco-emiliano, ci viene subito in mente la becera parodia che ne fece Crozza: un uomo di sinistra, con la r moscia e il fiasco di vino accanto. Certo, questo è il mito strumentalizzato da certa critica, ma è solo il dato parziale in un universo ben più complesso.

Ad ascoltare la discografia gucciniana, possiamo forse convenire che il grande tema che si ripete instancabilmente è quello del tempo, inteso in una accezione nostalgica, di ciò che è stato e che non può tornare, sebbene la ripetizione ciclica delle stagioni e dei giorni è ciò che compone il nostro stesso essere.
Già dal primo album troviamo un piccolo accenno a quello che il Maestrone eleverà a Il tema: è infatti in La ballata degli annegati che troviamo un uomo uccisosi perché era divenuto “peso il passato” e affogare era sembrato l’unico rimedio a questa condizione. La morte è presente anche in un’altra canzone, In morte di S.F., celebre perché ha sempre aperto i concerti del cantante, usata per sciogliere le dita dati i facili accordi. Qui, il tempo prende la forma di ciò che passa tra il vivere e il morire, qualcosa che si spende tra gioia e sofferenza, e che dovrebbe aver una certa durata per ritenersi accettabile:

Vorrei sapere a che cosa è servito vivere,
amare, soffrire, spendere tutti i tuoi giorni passati
se così presto hai dovuto partire, se presto hai dovuto partire…

Il secondo album porta già una annotazione temporale, Due anni dopo, e nell’omonima canzone possiamo trovare ancora il connubio tra tempo e illusione, quando Guccini canta “Lo specchio vede un viso noto, ma hai sempre quella solita paura che un giorno ti rifletta il vuoto oppure che svanisca la figura. E ancora non sai se vero tu sei o immagine da specchi raddoppiata; nei giorni che avrai però cercherai l’immagine dai sogni seminata…”. Il tempo – qui inteso come lo svanire e dunque la morte – sembra essere il trait d’union che intesse ogni evento, così anche il compleanno diviene un’opportunità per riflettere su come tutto passi e di anno in anno qualcosa cambia e niente è mai come ci si aspetta: in questo divenire continuo si perde anche ciò che prendiamo per garantito, ciò che interpretiamo come la verità. Proprio così si intitola una traccia del lato B: qui il leopardismo gucciniano si fa forte e ciò che viene descritto è il crollare di ogni certezza col passare delle ore, fino all’ineffabilità di ogni discorso che si è perduto “nell’urlo dolce di un minuto”. Nella sequenza finale troviamo una mirabile descrizione della dissoluzione della verità di fronte al “tempo che mescola le carte”:

Il cavaliere morirà, il suo scudiero non saprà,
parole vuote come occhiaie si seccano sulle pietraie
e mentre il corvo volerà e l’acqua in pioggia ricadrà
nel nulla sfuma ormai la verità.

Nel terzo album, L’isola non trovata – splendido omaggio alla poesia di Guido Gozzano – troviamo proprio la canzone Il tema, la quale si apre così: “Un anno è andato via della mia vita, già vedo danzar l’altro che passerà. Cantare il tempo andato sarà il mio tema perché negli anni uguale sempre è il problema: e dirò sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi, cercherò i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i visi che si sono persi, canterò soltanto il tempo”. Quest’ultimo sembra essere un’ossessione dell’allora trentenne modenese, il quale pare voler tornare sulla sua vita incessantemente, per scrutarla e rigirarla in un compito infinito perché essa sfugge all’analisi essendo il tempo per sé stesso inafferrabile e che rende il proprio oggetto evanescente. Altra canzone simbolo dell’albm è sicuramente Un altro giorno è andato, in cui Guccini grazie a un uso sapiente dell’immagine, prova a rendere concreto il lento scivolare dei giorni, che porta con sé gli amori e i sogni giovanili, la giovinezza e il tempo degli aquiloni: ciò che resta è il vuoto e l’occorrente per affrontare il passato ma che nel presente perde la sua utilità.

Radici è forse il capolavoro di Guccini, l’album che contiene la sua traccia più celebre – La locomotiva – che ne ha probabilmente segnato il destino di autore politico. Ma come qui stiamo scoprendo, di politico c’è ben poco, anzi potremmo dire che c’è puzza di metafisica! Il titolo è già un programma: le radici sono ciò che legano il passato e il presente, ciò che donano linfa e vita all’albero. In questo caso, il cantautore – o cantastorie come ama definirsi – si chiede cosa lo lega al proprio passato e ai propri antenati e la risposta è la casa che egli abita, la quale sorge “sul confine dei ricordi”. Ma i ricordi passano anche attraverso una città, quella a cui fu tanto fedele, “tre lunghi mesi”: qui, la memoria è ciò che dovrebbe rendere più dolce l’immagine di ciò che non c’è più ma che invece fallisce il proprio obiettivo e, anzi, rimanda un periodo confuso e malinconico: “se penso a un giorno o a un momento ritrovo soltanto malinconia e tutto un incubo scuro, un periodo di buio gettato via…”. Il tempo e la memoria, forma sotto la quale possiamo sperimentare il passare dei giorni e che permetterebbe di ricomporre la nostra unità sotto una identità, cambiano il volto anche a un incontro – titolo di un’altra canzone dell’album – che risveglia nel poeta la domanda antica che non hai smesso di assillare l’uomo: qual è il senso del tempo? Guccini, riprendendo Baudelaire, scrive alcuni dei versi più belli della musica italiana: “E pensavo dondolato dal vagone, cara amica il tempo prende il tempo dà… noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa… restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento, le luci nel buio di case intraviste da un treno: siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno…”.

Guccini ha scritto anche altro e i riferimenti al tempo continuano a essere presenti, ma in questi primi quattro album la presenza è davvero massiccia: la mia vicina di stanza forse aveva un po’ di ragione a dire che i cantanti sono i nuovi poeti; più semplicemente, basterebbe recuperare l’antica funzione della poesia e vedremmo che i poeti, a un certo punto, sono divenuti i nuovi cantastorie.

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