C’era una volta Horst Bienek

di Alex Marcolla

Anche ora che il suo tempo volgeva al termine, puntando lo sguardo al passato Horst non riusciva a mettere a fuoco altro che non fosse il tradimento del suo Maestro. Più volte nel corso degli anni il suo editore lo aveva invitato a scrivere della sua giovinezza in Alta Slesia durante la guerra. Da più parti era stata avanzata la richiesta perentoria di raccontare della sua prigionia e della fortuna di essere scampato all’inferno del campo di Vorkuta. Fedele a un ostinato riserbo, Horst aveva sempre declinato trincerandosi nel silenzio. Ai suoi primi anni felici aveva accennato in più libri, soprattutto quelli dedicati alla cittadina polacca in cui era nato. Non gli riusciva di andare oltre quei pochi riferimenti trasfigurati in romanzo. Quel che era accaduto dopo aveva sbiadito ogni ricordo, rendendolo niente più che il fotogramma dimenticato di un vecchio film in bianco e nero. Quella memoria d’infanzia si riduceva a una mera sequela di fatti segnati da volti sui quali si soffermava sperando che l’emozione lo potesse toccare erompendo improvvisa, questo però non accadeva. La deportazione subita, il lavoro forzato e la disumana quotidianità del gulag in cui era stato gettato poco più che ventenne avevano imprigionato anche ciò che sentiva. Il suo sentimento si era come raggelato senza che Horst lo avesse scelto. Si chiamava istinto di sopravvivenza, messo in pratica dalla volontà senza compassione alcuna per il sé più intimo. O così o morire, non c’era alternativa a Vorkuta. Ora tuttavia Horst aveva cominciato a scriverne, non poteva fare altrimenti. La malattia che da qualche anno debilitava il suo fisico non aveva cura alcuna. Se non avesse raccontato della sua esperienza nel gulag, tutte le atrocità che gli erano state imposte sarebbero finite nella tomba assieme alle sue spoglie. Nessuno ne avrebbe saputo nulla. Soprattutto gli altri sarebbero rimasti all’oscuro del particolare che più di tutti tormentava Horst da quando era stato rilasciato dal campo di lavoro. Il suo Maestro, il grande scrittore che lui ammirava, l’uomo dagli elevatissimi valori morali che aveva rivoluzionato il teatro del secolo e a cui tutti guardavano con reverenza, quest’uomo lo aveva tradito e Horst non era mai riuscito a farsene una ragione. Per arrivare a quel momento, occorreva prima di ogni altra cosa riannodare i fili della prima età spensierata, quei nudi fatti che avrebbero costituito col senno di poi un prima mai più raggiungibile.

Dunque c’era una volta il piccolo Horst, l’ultimo di sei figli. Un padre fuochista di locomotive spesso assente per via del lavoro. Una madre insegnante di pianoforte che inondava ogni giorno la casa di note. Come compagne di giochi le sorelle, i fratelli già adulti e alle prese con le prime esperienze. Poi la guerra scatenata dal fanatico austriaco che aveva vinto le elezioni in Germania, trascinando il paese nel baratro. Il padre di Horst obbligato al trasferimento, sua madre che muore all’improvviso e i fratelli mandati al fronte dal quale non avrebbero più fatto ritorno. Il giovane Horst che comincia i suoi studi, sempre accudito dalle cure amorevoli delle sorelle. Quando alla fine il conflitto ebbe termine, un Horst adolescente chiese di poter entrare nella zona tedesca sotto controllo sovietico. È una Berlino ridotta in cumuli di macerie quella che accoglie un giovanissimo Horst desideroso di vita nuova. Gli occhi proiettati al futuro, nulla di così terribile sarebbe mai potuto accadere di nuovo. Dapprima Horst venne assunto come apprendista redattore in un quotidiano della città. Accanto ai primi pezzi, ecco pubblicati gli acerbi esordi come poeta. Poi, spartita la Germania tra le potenze vincitrici, l’ammissione alla scuola di teatro del Berliner Ensemble a Berlino Est. Ecco prorompere la gioia incontenibile di Horst, avrebbe studiato drammaturgia con il più grande autore teatrale vivente: Bertolt Brecht. Nemmeno due mesi dopo, un fredda notte novembrina le forze di sicurezza del neonato stato socialista della Germania Est fecero irruzione nel semplice alloggio di Horst e lo arrestarono. Consegnato alla polizia segreta sovietica, Horst fu sottoposto a estenuanti interrogatori e dopo un processo sommario venne condannato a venticinque anni di lavori forzati con l’accusa di spionaggio per conto dell’Occidente. Caricato in un camion assieme ad altri sventurati che avevano subito la sua stessa sorte, Horst fu spedito nel campo di lavoro di Vorkuta, un avamposto dell’Inferno situato tra gli Urali settentrionali e il Mare Artico. Aveva ventidue anni e la sua innocenza era andata in frantumi una volta per tutte.

Gli inizi coincisero con il buio. Costretto a scendere nelle profondità della terra e a lavorare ogni giorno senza sosta in una miniera di carbone. Dall’alba al tramonto per mesi e mesi tentando di non soccombere alla fatica, aggrappandosi con tenacia al ricordo del tiepido calore del Sole. Con l’arrivo di nuovi deportati, Horst e quelli giunti con lui vennero destinati alla costruzione di alloggi. Stagioni intere trascorse a lavorare sotto il vigile controllo di guardiani privi di un briciolo di pietà. Nei momenti di tregua dal lavoro lo spirito di Horst cercava qualsiasi spiraglio che non lo facesse desistere. Imparò la lingua russa, si appassionò con il senso di meraviglia di un bambino alla letteratura espressa da quella lingua. Scrisse poesie usando quel poco di carta igienica che i prigionieri avevano in dotazione e nascose quei versi nei tubetti di dentifricio una volta vuoti, pensando di portarli con sé il giorno in cui avrebbe finalmente lasciato quel luogo tetro. Una tenue speranza legata a un tubetto usato di dentifricio. Ripensandoci poi, spesso Horst si era chiesto cosa gli avesse impedito di farla finita. Qualunque risposta gli sembrava priva di senso. Cinque anni più tardi, in base a un accordo tra le autorità tedesche e il governo sovietico, fu decretato il rimpatrio di tutti gli ex soldati della Wehrmacht e dei civili internati nei gulag sovietici. Anche Horst risultò tra questi e quando al momento della partenza gli fu chiesto dopo avrebbe voluto essere trasferito, lui scelse la Germania Ovest. Le sue sorelle lo attendevano con trepidazione, per tutto quel tempo avevano sperato che sopravvivesse. L’uomo che alfine videro varcare la soglia della loro casa non era più lo stesso che avevano conosciuto. Horst si era chiuso definitivamente in se stesso, sempre vigile per il timore che qualcuno potesse catturarlo di nuovo. Trascorso un primo periodo con le sorelle, Horst lasciò la loro casa. Studiò, pubblicò libri importanti, viaggiò parecchio. Quando si manifestarono i primi sintomi del male che nel giro di pochi anni lo avrebbe ucciso, Horst era già da tempo uno dei più autorevoli scrittori di lingua tedesca della sua generazione. La morte imminente lo costringeva a venire a patti con il tradimento che aveva segnato la sua vita. Ora avrebbe dovuto mettere nero su bianco quell’atroce tormento. Sentito dalle autorità dopo l’arresto di Horst, il suo mentore Bertolt Brecht non aveva proferito alcuna parola in sua difesa. Se c’era un sospetto, allora c’era la colpa. Così il grande drammaturgo aveva sentenziato, l’ideologia veniva prima della persona, la rivoluzione non poteva subire tentennamento alcuno. Di colpa però non vi era traccia, l’accusa di spionaggio era stata costruita su basi inesistenti. Horst seppe delle parole del suo idolo una volta tornato a casa. Brecht era morto da poco, Horst non aveva le forze per imbastire rese dei conti con niente e nessuno in quel momento. Ora anche lui stava per morire, era giunta l’ora di guardare in faccia lo sterminato dolore che gli era stato inflitto con il tradimento del suo Maestro. Non sarebbe stata però una impietosa rappresaglia la sua. Lui non aveva mai scritto spinto dal rancore o dal bisogno di rivalsa. L’odio – lo sapeva bene – non conduceva da nessuna parte. Tanto meno produceva letteratura.

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